Le affinità nascoste tra socialismo e conservatorismo (e l’orgogliosa diversità del liberalismo)

«In tutte le rivoluzioni, non ci sono mai stati che due partiti uno di fronte all’altro, quello delle persone che vogliono vivere del loro lavoro, e quello delle persone che vogliono vivere del lavoro altrui. Non ci si contende il potere e gli onori che per riposarsi in quella regione  di beatitudine, in cui il partito vinto non lascia mai dormire tranquillamente il vincitore. Patrizi e plebei, schiavi e liberti, guelfi e  ghibellini, rose rosse e rose bianche, cavalieri e teste rotonde, liberali e servili, non sono che varietà della stessa specie».

È impressionante come questo brano sia simile a una delle prime frasi, famosissime, del Manifesto del Partito comunista di Karl Marx.

«La storia di tutte le società finora esistite è la storia delle lotte di classe: liberi e schiavi, patrizi e plebei, signori e servi, maestri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto tra loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta».

La somiglianza è davvero notevole, e anche le differenze – a ben vedere – sono molto meno marcate di quanto possa sembrare a una lettura frettolosa.

A chi appartiene il primo brano? A un testo scritto undici anni prima del Manifesto da Adolphe-Jerôme Blanqui. Non inganni il cognome, famoso nella storia del comunismo. Non è Auguste Blanqui, il rivoluzionario che riteneva necessario l’uso della violenza come solo strumento in grado di realizzare la volontà del popolo. È il fratello maggiore, economista, discepolo di Jean-Baptiste Say: liberale e liberista, diremmo oggi.

Marx ha copiato? Sì e no. Nel senso che, come tanti altri, Marx è stato un geniale – e controverso – rielaboratore di teorie altrui che ha saputo integrare in un discorso del tutto originale. Lui stesso, che pure sa essere molto ingiusto verso gli avversari politici e culturali, riconosce apertamente, e con generosità i suoi debiti culturali. Nella lettera a Joseph Weydemeyer del 5 marzo 1852, lui spiega di aver inventato in realtà molto poco: la lotta di classe gli è stata ispirata dalla lettura di Thierry, Guizot, John Wade «e così via»: autori borghesi o liberali. L’analisi dell’economia moderna con le frizioni per  la divisione del plusvalore (oggi lo chiamaremmo il valore aggiunto e, a livello macroeconomico, il pil), gli è stata suggerita da David Ricardo, Malthus, Mill, Say, Torrens, Wakefield, MacCulloch, Senior, Whately, R. Jones, eccetera.

Il suo contributo consisteva invece in tre cose: «1. Mostrare che l’esistenza delle classi è puramente limitata a certe fasi storiche nello sviluppo della produzione. 2. Che la lotta di classe porta necessariamente alla dittatura del proletariato, e 3. Che questa dittatura in sé non costituisce niente altro che una transizione dell’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi».

Il cuore del pensiero politico di Marx – pensatore e agitatore molto complesso – è qui: una società senza classi (e quindi senza conflitti), in cui realizzare la libertà individuale – così dice, nel Capitale – è possibile, e per ottenerla è necessaria una politica autoritaria, ai suoi occhi temporanea, portata avanti dal proletariato – e presto dall’élite del proletariato, l’avanguardia di Lenin – che quindi è la classe sociale più importante, è per così dire gerarchicamente sovraordinata, delle altre perché è a lei affidato un compito storico unico. Assenza di conflitti come obiettivo, quindi, l’uso del potere, in questo caso rivoluzionario ma comunque esercitato con forza e autorità, come strumento. Il socialismo, la socialdemocrazia ha via via abbandonato il radicalismo dei comunisti ma il sogno – da realizzare con strumenti “democratici” e persino “liberali” – è sempre lo stesso: una società giusta, senza frizioni né conflitti, da realizzare con strumenti statali.

Qual è la differenza con il pensiero conservatore? Anche il pensiero conservatore pensa che sia possibile una società ordinata, senza conflitti. Sogna l’armonia che può essere trovata e perpetuata nella e dalla tradizione – oggi parleremmo di identità – di una nazione; una tradizione che, per secoli, si è fondata su un ordine gerarchico delle varie classi sociali (la nobiltà, poi i capitalisti e i proprietari terrieri sopra tutte), oppure di alcuni gruppi sociali meno strutturati (i “bianchi”, gli “ariani”, ma anche i cristiani, i cattolici, o gli anglicani) o anche un’élite, aperta e cooptativa, superiore, perché in grado di ottenere quell’obiettivo della coesione e di guidare la società.

Per ottenere questo risultato, al gruppo dominante basta a volte soffocare i conflitti e bloccare l’evoluzione della società verso quello che considera un maggior disordine; altre volte invece deve imporre un radicale ritorno se non proprio al passato che comunque lo ispira – il mondo dei ceti delle corporazioni (il corporativismo è la sua vera dottrica economica – a un mondo che abbia cancellato le forze centrifughe e le loro distruzioni (o “conquiste”, visto dal punto di vista opposto). Un ordine armonico, senza conflitti è il suo obiettivo, il potere, esercitato con forza e autorità come strumento. I moderati – opposti ai reazionari, ai populisti, ai fascisti – si sono allontanati dal radicalismo ma il sogno – da realizzare con strumenti “democratici” e persino “liberali” – è sempre lo stesso: una società armonica che si prenda cura delle sue tradizioni, attraverso lo strumento dell’autorità, anche statale, e una gerarchia tra classi o gruppi.

Entrambe le due dottrine politiche devono immaginare un mondo lacerato da conflitti molto aspri per giustificare il ricorso alla violenza e all’autorità. Marx deve postulare un conflitto di classe che peggiora sempre più, con una progressiva polarizzazione della società tra capitalisti e lavoratori-proletari, proletari perché sempre più incapaci di riprodurre il loro mondo vitale, a causa della caduta tendenziale dei profitto e dell’aumento dello sfruttamento. Il conflitto deve quindi diventare – nel senso che è destinato a diventare ma anche, hegelianamente, che è giusto che diventi – sempre più acuto.

Il conservatorismo nasce da Edmund Burke, ma il suo è decisamente il mondo hobbesiano, irreale e illogico, dell’homo hominis lupus (che si estinguerebbe in una generazione o poco più ed è quindi, come aveva giustamente notato Petr Kroprotkin, evolutivamente inadatto), trasformato poi con Carl Schmitt in un cupo mondo in cui la politica è definita dall’individuazione di un nemico che perde persino i connotati umani e che giustifica la richiesta ai cittadini-sudditi da parte dello Stato – delle élites…. – di sacrificare la propria vita per opporsi a tale nemico.

La circostanza che molti intellettuali comunisti o comunque di sinistra, di fronte al vuoto della teoria politica marxiana, abbiano adottato – sia pure con tutte le cautele del caso – il pensiero di Schmitt è una prova in più di questa affinità: Giorgio Agamben, Massimo Cacciari, Chantal Mouffe, Toni Negri, ma anche, su posizioni meno radicali, Carlo Galli hanno tutti fatto riferimento alle categorie di Schmitt. In nome di un maliteso realismo: la trasformazione del nemico in un ente privo di umanità è solo una delle molte manifestazioni dei conflitti. Non la più rilevante, anche perché in essi il peso dell’ideologia, della demagogia, è molto forte.

Entrambe le correnti politiche hanno sempre considerato l’individuo, come lupus, egoista e aggressivo – ma empiricamente parlando, in realtà, l’individuo non è necessariamente egoista e aggressivo – e, nello stesso tempo, come uno strumento, sacrificabile, in vista di un obiettivo più alto. Ad avere valore, perché aumenta il potere contro il nemico, è l’unione, la solidarietà, in nome a volte di un dio, a volte di un’idea (di nazione, di avvenire da costruire).

Si potrebbe allora dire che il comunismo marxiano non è altro che un conservatorismo rovesciato, proiettato sul futuro invece che sul passato. Tutto il socialismo che sogna ancora una società senza conflitti ha una affinità nascosta con il conservatorismo: il comunismo con il fascismo e il nazismo, il conservatorismo – spesso comunitario – con il socialismo. L’idea della transitorietà della dittatura del proletariato è solo un’illusione in più che i socialisti alimentano. «Molti rivoluzionari – scrisse del resto George Orwell – sono dei conservatori (Tories, nel testo originale inglese) potenziali perché immaginano che ogni cosa possa essere messa a posto alterando la forma della società». «Una volta che il cambiamento è stato realizzato – aggiunse – non c’è più bisogno di niente altro».

Questo significa che tra il conservatorismo e il nazismo da una parte, e il socialismo e il comunismo reale dall’altra c’è una differenza di grado, ma non di natura. L’evoluzione del partito repubblicano americano verso il trumpismo ne è una prova, certe ambiguità dei socialisti (settanta anni fa verso Stalin, ieri verso Chavez) sono un’altra. Se nazismo e comunismo reale sono in qualche modo speculari, lo sono anche un certo conservatorismo – non tutto – e un certo socialismo – non tutto.

Il fatto che il conservatorismo miri a mantenere ed eventualmente ad ampliare il potere di chi ha già potere, consolidando lo status quo, mentre il socialismo vuole riequilibrare la struttura della società – anche se con modalità a volte inaccettabili – rende in realtà impossibile mettere sullo stesso piano – da un punto di vista politico, non soltanto morale – le due prospettive. Socialismo e comunismo con tutte le loro deviazioni anche violente – ma quale dottrina politica non ha avuto deviazioni violente? – non sono “uguali” a conservatorismo e nazifascismo, malgrado le tante affinità.

Cosa c’è “al di fuori” di questo mondo che vede aspri conflitti ma vuole annullarli, verso la creazione di una società ordinata ma statica, non dinamica? Il liberalismo, che non solo vede positivamente i conflitti – trasformati in conflitti spesso diffusi e a bassa intensità, in concorrenza tra idee, tra progetti di vita, tra imprese politiche, sociali ed economiche, che non hanno mai vincitori e vinti – ma vuole trarne energia, motivo per andare avanti, per innovare, per creare nuove strade.

Il conflitto, sia pure a bassa intensità, è un fatto. Non esaurisce la realtà sociale, ma difficilmente può essere cancellato. Il mondo moderno, con lo sviluppo della divisione del lavoro, porta a una maggior interdipendenza tra gli individui, e quindi a maggiori “frizioni”, tra di essi; le libertà, che classicamente – e un po’ banalmente – finiscono dove iniziano le libertà altrui, creano al margine, ai confini, frizioni e conflitti. La concorrenza, motore dello sviluppo economico, è una forma di conflitto, non necessariamente conclamato e aggressivo. La poliarchia, soprattutto se il principio fondante è l’indipendenza delle sfere e non la sussidiarietà, può essere fonte di conflitto. La semplice diversità dei percorsi di vita, che i liberali auspicano, può creare conflitti, più o meno autentici. Per il liberalismo, il conflitto – gestito – è il motore della società, e il timore di alcuni pensatori di una società uniformata, appiattita si è rivelato vuoto.

Allo stesso modo il liberalismo è molto scettico, se non sospettoso, verso il potere, chi lo detiene, chi cerca di aumentarlo e centralizzarlo: vuole non solo separare, ma distribuire il potere. La libertà, alla fine, è – se non altro asintoticamente – la libertà di persone con potere uguale, scriveva il liberale e liberista Henry C. Simons, fondatore della prima scuola di Chicago: segno che sul piano politico l’eguaglianza – che non è semplicemente l’eguaglianza di fronte alla legge – ha un rapporto necessario con la libertà.

proceduralizzare il conflitto, trasformarlo in un iter pacifico e dotarlo di un sistema, spesso complesso, di risoluzione delle controversie sociali. Presuppone una pluralità di vedute in concorrenza tra loro: Non si limita a questo, però: scettico verso il potere, il liberalismo non sopporta che gli individui diventino uno strumento, e non può che riconoscere dignità piena e uguale a ciascuno di essi, e alle sue scelte di vita. Neanche l’eguaglianza economica – intesa come differenza di potere – può essere del tutto esclusa dalla cultura liberale: i liberali sanno bene che gli indigenti, i poveri, non sono liberi, e che differenze estreme di reddito e ricchezza significano differenze estreme di libertà e potere[1]. La democrazia immaginata dai conservatori e dai socialisti, invece, è a volte una democrazia plebiscitaria, in cui la maggioranza prevale e rappresenta tutti. Un sistema, questo, per soffocare le diversità e con essa i conflitti che ne nascono.

Il mondo concreto della politica, ovviamente, non sopporta divisioni nette. Tra socialisti e liberali, tra conservatori e liberali sono esistite sovrapposizioni, storicamente anche durature e rilevanti. Soprattutto quando i principi – libertà e tradizione, da una parte, libertà e giustizia, dall’altra – sono poste liberalmente in concorrenza tra loro in modo da diventare fonte di ulteriori progressi, di una nuova creazione di proposte politiche. Un liberalismo conservatore – figlio di Montesquieu, per esempio, che liberale non era – come  un liberalismo socialista – formula nata nel 1853 che ha trovato soprattutto in Italia, con Carlo Rosselli, che liberale non era, una grande fortuna – non sono ossimori. Sono forme di mesotes aristotelica[2], non contraddizioni logiche, ma scelte morali e politiche non “facili”, che espongono idee e proposte a tensioni, e creano il rischio di far scivolare chi le propone lontano dal liberalismo.

La vera critica a queste due forme di “compromesso” tra diverse opzioni, è che… non sono necessarie. Una visione liberale, che considera con grande scetticismo il potere e la sua concentrazione, si coniuga naturalmente con il gradualismo (“gradualisti”, non a caso, erano anche alcuni anarchici, come Errico Malatesta, malgrado una visione decisamente radicale e persino comunista della società futura) e con un’eguaglianza non solo formale: l’ideale finale del liberalismo – che comunque crede in un progresso, faticosamente realizzato e mantenuto: se non altro quello che trasforma i conflitti violenti in frizioni proceduralizzate – è un mondo di individui con lo stesso potere, non solo politico (democrazia).

Sono aspetti questi che vanno ricordati più e più volte. Nell’ultimo secolo si è diffusa una forma di liberalismo che ha deciso di trarre a sé alcuni elementi del conservatorismo, finendo per diventarne ancella. Si è adottato il mito del mercato che crea “armonie economiche”, come argomentava Bastiat che da liberale un po’ naif è stato trasformato in un maître a penser. Ci si è illusi che il dolce commercio portasse la pace – ma Germania e Gran Bretagna nel 1914 avevano strettissimi rapporti economici, e lo scoppio della guerra scatenò una forte crisi – e che i sindacati dovessero, in quanto “violenti”, scomparire lasciando al “mercato” (e ai consumatori, intuizione che però non va sottovalutata) la guida dei rapporti con gli imprenditori. Si è confuso – con Friedrich Hayek – la spontaneità che i liberali (Croce, per esempio, nella sua Storia d’Europa nel secolo decimonono) hanno sempre considerato importante – anche se il concetto è molto vago – con la tradizione dei conservatori, di Edmund Burke in particolare. Spesso si è disprezzata la democrazia: nemici del razionalismo, che mette in discussione la tradizione, alcuni neoliberali l’hanno considerata irrazionale.

Il mercato, da realtà importante per il mondo liberale – se non altro perché poliarchica: permette la scelta, permette l’innovazione – è  diventato un mito di cui conservare la purezza, al punto che persino monopoli ed oligopoli sono stati accettati, nella convinzione che nel tempo – ma quanto tempo? – non possono che scomparire. Tutto questo proprio nel momento in cui la scienza economica studiava i mercati in modo rigoroso, ne mostrava le efficienze e i limiti, i fallimenti e le opportunità; e nello stesso tempo studiava anche le politiche economiche, i limiti entro cui funzionano, gli effetti collaterali che producono. Invitando dunque tutti a un approccio concreto, pragmatico, anche se non necessariamente privo di principi, verso i problemi economici.

Il liberalismo nella sua forma di neoliberalismo o neoliberismo – che pure nasce alla fine degli anni 30 dalla considerazione che il laisser faire è ricetta troppo ingenua per una società complessa, e che quindi richiede una valutazione articolata – è diventato allora dottrinale, è diventato elitario (e ha quindi valutato in modo diverso il potere delle élites rispetto al potere di chi delle élites non faceva parte), è diventato antidemocratico. È diventato troppo simile al conservatorismo che ne adotterà alcune proposte – ma non tutte: le privatizzazioni, ma non lo sviluppo della concorrenza, il depotenzialmento dei sindacati e del welfare state ma non il reddito universale, per esempio – e poi lo tradirà con Donald Trump e l’attuale destra populista.

Il rischio, per il mondo liberale, è quello di immaginare davvero che i conflitti, le frizioni, si possano risolvere spontaneamente o, per essere più precisi, automaticamente. Spontaneità può essere un termine riassuntivo, e un po’ frettoloso, per descrivere l’interagire operoso operoso delle diverse “archie” di una società moderna. Diventa però difficile considerarla come una soluzione automatica ai conflitti sociali: una soluzione che escluda la creatività umana, lo scambio, la concorrenza e il confronto di informazioni, idee, soluzioni. Non c’è nulla di “automatico”, in realtà, in un contratto, in un’innovazione, in un’iniziativa sociale che nasca (“spontaneamente”) dal basso come un sindacato o una società di mutuo soccorso.

Nel XXI secolo è allora importante che il mondo politico recuperi in parte l’affresco, molto complesso, disegnato da Benedetto Croce nella sua Storia d’Europa nel secolo decimonono. Sia chiaro: cento-centocinquantanni non sono passati invano, e non si può certo immaginare il mondo sociale e politico diviso in due grandi fronti, chi crede nella religione della libertà – la libertà, intesa come creatività, è oltretutto, come la ragione, un fatto, non una religione – e chi a essa si oppone, in rapporto oltretutto dialettico tra loro (anche se è vero che la libertà va continuamente riconquistata, generazione dopo generazione, contro il tentativo autoritario di ripristinare lo spazio del potere. Conservatori-reazionari e socialisti (il comunismo è sparito) continueranno a contrapporsi e a prosperare, malgrado i relativi fallimenti. Una cosa deve però essere chiara. Il liberalismo è un mondo a sé, che (spiritualmente, si sarebbe detto un tempo) si differenzia radicalmente, e orgogliosamente, da entrambi.

[1] Questo discorso imporrebbe di affrontare il tema del rapporto tra la “libertà da”, la “libertà di”, e la “libertà come assenza di dominio”. Sarà oggetto in un altro post, in preparazione.

[2] Devo questa intuizione sul moderatismo come medietas aristotelica che nasce dal pensiero di Montesquieu a una breve discussione, sui social, con Nadia Urbinati (che ringrazio). È responsabilità mia, ovviamente, la sua applicazione alle due forme del liberalismo conservatore e e del liberalismo socialista.