Libertà contro libertà: i «liberalismi piccoli piccoli» di Felice e Mingardi

Un libro importante e godibile che ripropone però due versioni, da superare, di «liberalismo limitato», che potrebbero risultare incapaci di contrastare l’attuale tentazione di costruire una società chiusa: il liberalsocialismo e il conservatorismo liberale

 

Non c’è argomento più attuale del liberalismo. Nel momento in cui la democrazia illiberale, plebiscitaria, tende a conquistare terreno – anche in Italia, dove Silvio Berlusconi ne è stato il primo sostenitore e Giorgia Meloni la persegue con decisione – e nel momento in cui l’Ue ritorna a una politica industriale che fissa obiettivi strategici e accetta con entusiasmo, dopo le banche universali, “campioni europei”, aiuti di Stato e limitazioni alla concorrenza, è inevitabile che si torni a parlare della libertà politica e di quella economica, e di come esse possano animare le scelte politiche del futuro.

È dunque importante, e sicuramente da leggere, il testo di Emanuele Felice e Alberto Mingardi, Libertà contro libertà. Un duello sulla società aperta, da poco pubblicato (dal Mulino). Il libro, rapido e godibile, ripercorre – senza voler trovare una sintesi, impossibile: il liberalismo è… libero – due culture diverse della libertà, una di sinistra, progressista, un’altra conservatrice, ispirata al neoliberismo del secondo 900. Lo sforzo di rendere il discorso attuale e concreto è costante e non c’è spazio per elaborazioni teoriche, importanti ma evidentemente destinate a contesti e occasioni diverse. Non mancano diversi spunti molto originali: i due autori, del resto, hanno animato molto, da fronti opposti, la discussione in Italia sul liberalismo e la società aperta. Mingardi è animatore dell’Istituto Bruno Leoni; Felice, docente di Storia economica allo Iulm di Milano, è stato respognsabile economico del Partito democratico.

Il libro fa però emergere un problema non secondario. I liberalismi che emergono dalle due diverse argomentazioni sono liberalismi “piccoli piccoli”. O meglio, per usare un’immagine di Benedetto Croce, sono due ircocervi. Sono due approcci, ovviamente legittimi, in cui la libertà non viene illuminata per quello che è nella sua contrapposizione – dialettica, si potrebbe dire, o fondata su trade off, per imitare una giusta osservazione di Mingardi – con quello che libertà non è: l’approccio autoritario, ovunque trovi la sua fonte. Viene limitata da principi diversi, eterogenei; diventa disordinata, si indebolisce.

Felice ripropone l’ircocervo crociano classico, un liberalsocialismo in cui al concetto di felicità viene dato il compito di armonizzare libertà e giustizia o, ma è cosa molto simile, libertà e diritti. Dimenticando forse che il concetto di felicità può dar vita a nuovi paternalismi[1]. «Può darsi, beninteso – arriva a scrivere Felice – che per salvare l’umanità e il pianeta noi saremo costretti a rinunciare alla nostra libertà». Perché? e a favore di quale autorità?, bisogna chiedere, se si vuole restare nel solco del pensiero della libertà.

Mingardi invece ripropone una forma sapientemente rinnovata del neoconservatorismo liberale di Hayek (e di von Mises[2]), di cui non evita del tutto alcuni dei tratti antimoderni, e forse anche antidemocratici: si parte non a caso dall’idea, di Madame de Stael, che «[è] la libertà a essere antica […] mentre il dispotismo è moderno». Di Hayek si ripropone l’idea che l’equilibrio trovato spontaneamente dalla società, quale che sia, non vada “disturbato” dal potere politico, che di questa evoluzione spontanea non fa parte[3], e debba anzi diventare diritto, un diritto da “scoprire”, non da istituire (evidentemente neanche con procedure democratiche). È una concezione che ammette solo la libertà negativa – come libertà di non interferenza da parte del solo Stato – non anche la libertà positiva e men che meno le capabilities di Amartya Sen e Martha Nussbaum[4]; ma la libertà del liberalismo – purtroppo e per fortuna – è più complessa. In questo modo, la soluzione dei problemi diventa puramente eventuale: viene trovata se l’ordine spontaneo della società riesce a muoversi, per tempo, nella direzione “giusta”[5]. «La libertà del liberalismo non coincide con un qualche progetto di emancipazione personale», arriva a scrivere Mingardi, con una formula che sembra cancellare l’individualismo liberale classico. L’individuo di Hayek, del resto, è molto passivo, non deve “progettare”, se non a livello individuale. Il tema della interdipendenza sociale creata dalla divisione del lavoro – che giustamente l’ultraliberale Ludwig von Mises mette al centro della propria riflessione – è invece un tema fondamentale per il liberalismo, perché la libertà dei moderni e dei contemporanei deve sorgere in queste circostanze di radicale dipendenza dagli altri. La soluzione liberale non può quindi essere la mera sottomissione a un anonimo ordine spontaneo, che è la soluzione conservatrice; ma un rapporto “dialettico” – di contrasto, di accettazione, di superamento – con esso e con le concentrazioni di potere.

Nessuna delle due proposte è quindi liberale fino in fondo. Non nel senso, sterile, che ciascuna di esse è incompatibile con una terza visione astratta del liberalismo, da proporre qui. Il liberalismo è anzi stato funestato negli ultimi decenni proprio da processi aperti contro liberali “falsi”, “eretici”, “anomali”, da parte di chi pretendeva di avere il monopolio dell’autenticità. Non è questo l’approccio giusto.

Le due proposte non sono liberali fino in fondo perché rappresentano una commistione del liberalismo con qualcos’altro, e non riesce a pensarlo nella sua specificità. Semplificando, l’approccio di Felice è dominato da un’idea di equilibrio da raggiungere, astrattamente pensato in base a una scelta più o meno arbitraria di principi; l’approccio di Mingardi da un’idea di equilibrio già raggiunto dall’evoluzione della società, astrattamente pensato in base a una scelta più o meno arbitraria di alcuni aspetti della realtà delle cose. Il liberalsocialismo tende a conciliare libertà e giustizia ed eguaglianza[6] ponendole sullo stesso piano; il neoconservatorismo tende a identificare la libertà con la proprietà privata (dimenticando, per fare solo un piccolo esempio, che “l’aria delle città rende liberi” perché in città spazi pubblici convivono con spazi privati) e la diseguaglianza.

Entrambi sembrano dimenticare che, nella quotidianità e nella concretezza del diritto – e il liberalismo è diritto – diversità ed eguaglianza non sono necessariamente contrapposti. Entrambi non distinguono sufficientemente la creazione dell’ordinamento giuridico – che per Hans Kelsen coincide con lo Stato – dall’intervento e l’interventismo dei governi e delle burocrazie amministrative, distinzione di cui ci sarebbe grande bisogno, in questa fase politica in cui il potere esecutivo assorbe, tra applausi crescenti, sempre più poteri. Entrambi evitano finché possono il discorso sul potere economico, il primo perché erede di una tradizione che non ama il mercato – centrale invece, e da sempre, nella cultura socialdemocratica svedese – e ama i monopoli pubblici; il secondo perché erede di una cultura per la quale l’unico potere economico, da contrastare, è quello dei sindacati. Entrambi partono da un’idea precisa, e ovviamente diversa, della natura umana (evoluzionisticamente intesa), laddove sarebbe forse meglio partire dagli uomini e dalle donne moderne e contemporanee.

Il liberalismo di Benedetto Croce, che non è isolabile dalla sua Logica e dalla sua filosofia storicistica (e non idealistica, come spesso si pensa e come lui, sia pure tardivamente, ha contestato) è invece, per fare un esempio concreto, una proposta di liberalismo radicale, “distinto” – e la distinzione è fondamentale nella sua filosofia – da tutto il resto.

I limiti delle proposte dei due autori, che pure offrono spunti interessanti alla discussione, diventano evidenti alla conclusione del libro. Felice ripropone tutti i tropi di quella “sinistra simbolica” che, accumulando disordinatamente le parole d’ordine di diverse “scelte di felicità” ha svuotato la proposta di emancipazione che il socialismo (libertario, soprattutto) e il popolarismo avevano sostenuto per anni, insieme al migliore liberalismo. Il richiamo – finalmente[7]! – al mutuo appoggio di Peter Kropotkin serve a Felice, per esempio, per contrastare una visione dell’individualismo avido che è caricaturale anche in chi lo propone e non, per esempio, per dire che lo Stato, o meglio, il governo non può e non deve fare tutto. La libertà – si potrebbe dire – più che partecipazione, è (anche) libera cooperazione, aiuto reciproco[8], indipendentemente dallo Stato.

Mingardi ripropone invece i tropi del conservatorismo antistatalista, a volte con (attenuate) sfumature populiste, evocando – in una giusta polemica contro l’emergenzialismo – l’unico episodio di effettiva emergenza: l’epidemia e il lockdown.

Entrambi finiscono con il discutere, molto, della distribuzione del reddito, tema importante ma – appunto – non strutturalmente liberale. Non sempre, almeno. Temi liberali sono il monopolio, le rendite, le gerarchie (quelle interne alle aziende, per esempio, che negano il mercato), il potere di creare denaro “con un tratto di penna”[9]: le cause, insomma, di quelle diseguaglianze distributive, non sempre risolvibili con la tassazione.

In comune c’è solo il sostrato elitario dei due approcci, che però resta in sordina. In un caso è la politica, in un altro l’economia che è chiamata a dominare. Entrambi – come il liberalsocialismo e il conservatorismo a cui rispettivamente si ispirano – sono convinti che sia possibile individuare un’élite, in un caso ristretta, in un’altra decisamente più ampia, in un caso politica, in un altro economica, a cui affidare le grandi scelte della società. Per un approccio liberale, invece, siamo solo di fronte agli effetti della divisione del lavoro. Influente, ma senza alcun destino manifesto.

Nulla di male, ovviamente. Il liberalismo è libero, non certo un corpus dottrinario sistematico. Le commistioni non sono, in sé, un fatto negativo sul piano pragmatico, anche se lo sono su quello concettuale (e i due aspetti non sono scollegati). Il problema nasce nel momento in cui questi liberalismi sono chiamati a contrastare l’attuale tentazione a costruire una società chiusa, la versione contemporanea del principio autoritario che alla libertà si oppone. Saranno in grado? Una democrazia plebiscitaria, che tradizionalmente leghi le (aspiranti) élites al popolo – e diventa quindi populista – si prende cura paternalisticamente dei suoi bisogni dandogli quindi felicità pubblica, lasciando però libero spazio a politici e impreditori (selezionati, quindi eletti) e a qualche forma limitata di ricerca scientifica che tenga il sistema economico in movimento, possono davvero essere contrastate da uno o l’altro, o da entrambi, questi liberalismi?

Anogamente, possono questi approcci contrastare il nuovo interventismo economico, che non è sociale, ma strategico? Sfugge a entrambi gli autori, e la questione è più importante di quel che sembra, che dietro la retorica dell’ecologismo di cui molto parlano si nasconde – insieme al desiderio, comunque, di venire incontro alla domanda politica di un sistema economico più sostenibile – la scelta strategica di diversi Paesi, ma soprattutto dell’Eurosfera, di porre al centro della politica, anche economica, il tema dell’indipendenza energetica da stati e aree tendenzialmente instabili: potenzialmente una svolta radicale rispetto a un approccio liberale anche dal punto di vista delle relazioni internazionali, segnate oggi dal “ritorno degli imperi”. C’è una tendenza – Emmanuel Macron e Mario Draghi ne sembrano i campioni – a trasformare l’Unione da esperimento politico comunque liberaldemocratico (con mille deficit e difetti, sia chiaro) in un sistema “forte” e “sovrano” nelle relazioni internazionali anche economiche. Sembra prevalere di nuovo l’approccio – conservatore e non liberale – Tina: there is no alternative, non c’è alternativa. La discussione aperta, invece, è necessaria.

Libertà contro libertà è, insomma, un libro necessario, per gli spunti di discussione e di approfondimento che offre, ma è un libro che segna, auspicabilmente, la chiusura di un’epoca. Anzi di due. Chiude l’epoca del conservatorismo neoliberista, che ormai è diventato una parte, irrilevante, del neoconservatorismo plebiscitario (Donald Trump, per intenderci), così tanto vicino alla democrazia illiberale. Chiude l’epoca del liberalism progressista che, nella sua difesa dell’interventismo statale, burocratico, e quindi dell’elitarismo[10] (si pensi a Keynes e al keynesismo) ha suo malgrado alimentato il neoconservatorismo diventandone – simboli a parte, da cui l’espressione “sinistra simbolica” – subalterno.

Ora occorre aria nuova. Libera.

Emanuele Felice, Alberto Mingardi. Libertà contro libertà: Un duello sulla società aperta. Il Mulino, 2024. euro 17 a stampa, euro 11,99 in formato elettronico 

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[1] È una curiosità, sia pure scientifica, ma la ricerca della felicità può diventare motivo di infelicità. Si veda Russ, H. The Happiness Trap (tr. it. La trappola della felicità, Centro studi Erickson), scritto sulla base dell’approccio della Acceptance and Commitment Therapy.

[2] Liberalismo di von Mises, tradotto in italiano per Rubettino, è al tempo stesso la luminosa summa del liberalismo classico visto da un punto di vista economico, compreso l’elogio della democrazia e della pace, e l’oscura identificazione, che apre il neoliberismo, tra libertà e proprietà privata dei mezzi di produzione.

[3] Davvero?

[4] Il tema delle capabilities va interpretato all’interno dell’enorme divisione del lavoro e differenziazione delle conoscenze delle società contemporanee.

[5] Se non lo fa, sembra essere la conseguenza di questo approccio, allora non era un problema. È una visione che ricorda molto Hegel e le sue polemiche un po’ acide contro le “anime belle”.

[6] Anche Adam Smith puntava allo stesso obiettivo, e non a caso un anarchico comunista come Peter Kroprotkin lo considerava tra i suoi autori.

[7] Il recupero della tradizione libertaria da parte del liberalismo è tutto da fare. Se Serge Audier ripercorre in senso non strettamente liberale l’ecologismo di Elisée Reclus, manca un esame della revisione dell’anarchismo realizzata da Merlino e da Berneri, per limitarci alla sola Italia.

[8] La tradizione delle friendly societies socialiste, una forma di libera autorganizzazione dei lavoratori, è stata distrutta in Gran Bretagna dai liberali. Le charities paternalistiche, che sono cosa diversa ma pretendono di ispirarsi alle societies, sono poi state riproposte dal conservatorismo, anche liberale, a cavallo del secolo. Sono fenomeni che andrebbero ripensati.

[9] Il lavoro di Henry Calvert Simons, il suo Chicago Plan, le proposte di banca limitata di cui si è tornato a discutere dopo la Grande recessione cercano di accendere i riflettori su questo tema.

[10] Il socialismo non libertario, il liberalismo – malgrado la magnifica confutazione di Mosca e Pareto da parte di Ralf Dahrendorf – e il liberalsocialismo sono tutti legati a una visione elitaria, e quindi nascostamente conservatrice, della politica e della società. L’obiezione di Von Mises – l’élite politica è il semplice frutto della divisione del lavoro – è più autenticamente liberale.

  • habsb |

    Gran bell’articolo.
    Complimenti, davvero;
    Mi permetto solo un piccolo dubbio sul “conservatorismo neoliberista, che ormai è diventato una parte, irrilevante, del neoconservatorismo plebiscitario “.
    Quando si considerano le idee di Elon Musk, o di Peter Thiel, e il loro potente sostegno finanziario alle campagne di Trump, è lecito dubitare del giudizio che il neoliberismo sia divenuto una parte irrilevante del populismo trumpiano.

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