(Questo post ha due versioni. La più recente risale al 18 maggio 2024, con un’aggiunta del 14 giugno – la citazione di Aron – ed esprime meglio, con più chiarezza, la mia visione. In coda la versione originale che, da ottobre 2021 fino al suo aggiornamento, ha avuto 99768 visualizzazioni)
Qual è la differenza tra il fascismo e il comunismo? La risposta breve è comunque duplice, ha due aspetti. Nessuno dei due definisce fascismo e comunismo, ma entrambi iniziano in medias res.
Il primo aspetto sottolinea innanzitutto che il fascismo – o, per essere più rigorosi, il cesarismo, il legame stretto tra un leader autoritario e una massa di cittadini – si è realizzato, pienamente, più volte nella storia; il comunismo no, quello che abbiamo conosciuto è la perversione, inevitabile, di un ideale di emancipazione mal concepito. Questo sforzarsi di raggiungere un ideale mai raggiunto ha però una conseguenza importante e di valore opposto, messa in evidenza da Raymond Aron nelle sue Mémoires: “Il regime italiano e anche quello hitleriano [nel 1945] non andavano così lontano come il regime sovietico dal punto di vista del totalitarismo, nei due sensi della parola: l’assorbimento della società civile nello Stato, la trasfigurazione dell’ideologia dello Stato in dogma imposto agli intellettuali e alle università”.
Il secondo aspetto è che il fascismo è e resta attuale. Purtroppo. Il comunismo è morto. Il cesarismo ricorre spesso nella storia. Dal Secondo impero di Napoleone III allo Stato prussiano degli Hohenzollers, all’Italia di Mussolini, alla Germania di Hitler, alla Spagna di Franco, e via via continuando fino all’America Latina e fino alle (post?)-moderne tentazioni di democrazia plebiscitaria (e quindi illiberale) da Berlusconi a Orban ai reazionari polacchi a Giorgia Meloni. Anche prima del 1851, come mostra il nome stesso, si moltiplicano i tentativi di stabilire un legame tra un leader autoritario, in genere un re, e la folla, magari per schiacciare le forze intermedie. Si potrebbe argomentare che, attraverso Ferdinand Lassalle e il socialismo bismarkiano, anche il comunismo si inserisca nella stessa corrente. Anche suo malgrado, come mostrano i cedimenti di Lenin verso i contadini russi e il loro programma di redistribuzione della proprietà della terra. La storia del comunismo è, però, anche storia di masse schiacciate violentemente, come durante le collettivizzazioni forzate iniziate nel 1928 da Stalin.
Scendendo sul piano delle definizioni le similitudini tra fascismo e comunismo si esauriscono presto. È vero: entrambi hanno creato indicibili sofferenze: la glorificazione della violenza – che Hannah Arendt riferiva a Karl Marx, forse in modo non del tutto corretto – accomuna le due visioni politiche. In questo senso, dichiararsi non solo antifascisti ma anche anticomunisti è un imperativo morale, non facile, evidentemente e comprensibilmente, per chi nutre ancora quell’ideale di emancipazione, sia pure in un contesto storico ed economico profondamente mutato. Questa difficoltà, però, mostra la maggiore ambiguità dell’ideale comunista, che può mettere tra parentesi, con i suoi ideali, i suoi esiti. Nel Capitale – il primo libro, pubblicato in vita e rivisto per diverse traduzioni ed edizioni – Karl Marx parlava dell’obiettivo del comunismo come “il pieno e libero sviluppo di ogni individuo” (corsivi miei), quasi una correzione degli ideali liberali (da lui nutriti in gioventù). La sua idea apparentemente libertaria di estinzione dello Stato si scontra però non tanto e non solo con l’idea della dittatura del proletariato, che nel sistema marxiano, in cui il proletariato diventa la classe più numerosa e trainante sul piano dell’emancipazione di tutti, somiglia all’egemonia di Antonio Gramsci e in astratto può assumere istituzionalmente forme diverse, quanto con l’idea, di Friedrich Engels, che nel comunismo si realizzerà l’amministrazione delle cose al posto del governo delle persone: un inferno burocratico, insomma come Mikhail Bakunin, anarchico e collettivista (non comunista), l’aveva ben capito. (Val la pena di notare che è stato lo stesso Marx a invitare a guardare ai rapporti sociali, e dunque alle persone, dietro ai fenomeni reificati dell’economia, alle cose).
Sbaglia chi crede che il fascismo e il nazismo siano figli del comunismo e quindi della sinistra. È vero: Mussolini fu un socialista massimalista, e si sedette in Parlamento a destra, in modo molto teatrale, per “guardare in faccia” i propri avversari, ma questi aspetti sono solo espressione della sua spregiudicatezza. Il fascismo nacque liberista: il primo ministro dell’Economia e delle Finanze Alberto de’ Stefani, era liberista e fascista e sedette nel Gran Consiglio del Fascismo fino al 25 luglio 1943, pur avendo maturato posizioni relativamente critiche verso il regime. Il liberismo fascista[1] – sostenuto esplicitamente da Mussolini – poi non resse alle pressioni degli industriali prima, e all’impatto della Grande depressione. Il nazismo adottò il nome di partito nazionalsocialista soltanto per ragioni di propaganda politica, contro il parere contrario di Adolf Hitler. Le somiglianze sul piano economico tra nazismo e comunismo sono più legate a una comune matrice, apparentemente di successo: l’economia di guerra sperimentata, ma con obiettivi molto limitati, durante la Prima guerra mondiale.
Anche l’idea che fascismo e nazismo siano stati una reazione alla paura per il comunismo – tema che continuerà a essere discusso dagli storici anche in futuro– potrebbe non reggere alla prova della cronologia. La settimana rossa, in Italia, è stato un episodio limitato nel tempo, e fallimentare rispetto agli obiettivi. Nel 1922 era esaurito. Un liberale dalle movenze a volte conservatrici come Ludwig von Mises, nemico del fascismo (e del comunismo) in tutte le sue forme[2], se ne accorgerà presto e, dopo aver sposato questa tesi, scriverà che il fascismo è in realtà figlio del fallimento del comunismo: una tesi interessante.
Obiettivi e basi sociali di comunismo e fascismo sono profondamente diversi. La società prefigurata da Karl Marx, prima che Friedrich Engels desse vita a un marxismo traducibile in prassi immediata, era una società senza denaro, senza politica, senza conflitti, in cui i lavoratori associati si coordinano dal basso. La società ideale del comunismo è una società omogenea. La sua base sociale era il mondo degli operai, soprattutto specializzati, che nella visione di Marx, avevano in potenza – c’è molto Aristotele in Marx – la capacità di assumere tutte le funzioni produttive, comprese quelle svolte dai capitalisti, dagli imprenditori, dai manager. James Burnham, nel suo The Managerial Revolution del 1941, dice in sostanza che si sono realizzate le previsioni di Marx ma la classe “vincente”, quella dei manager, non è la classe universale che lui immaginava.
Il fascismo guarda altrove. Vuole una società stratificata, con una gerarchia sociale fissa e tradizionale, congelata. Non l’abolizione della proprietà privata ma il corporativismo – nato dall’enciclica Rerum novarum in chiave chiaramente antiliberale, poi adottato da Mussolini – è la sua dottrina economica, di cui sono rimasti molti residui nei paesi occidentali, e soprattutto in Italia.
Il fascismo è allora uno sviluppo del tradizionalismo e del conservatorismo, e la sua base sociale è totalmente differente. È l’estremismo delle classi medie, incattivite per i passi avanti che le classi operaie, grazie a partiti e sindacati fortemente organizzati, erano riusciti a fare, sia in termini sociali che in termini di riconoscimenti (che a chi restava indietro apparivano come privilegi) politici e per lo sviluppo del capitalismo che distruggeva l’economia tradizionale[3].
Il fascismo, o cesarismo, è insomma un fenomeno squisitamente di destra, la tentazione costante del conservatorismo. Oggi, è decisamente più pericoloso.
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[1] Sul punto, e sui programmi liberisti di Mussolini è in preparazione un altro post.
[2] Nel 1927, considerandolo un fenomeno transitorio, ne fa anche un circoscritto elogio, sia pure nella consapevolezza della sua natura violenta. Cambierà presto, radicalmente, opinione.
[3] Questo aspetto è molto chiaro nel resoconto di Raymond Aron, che in quegli anni viveva in Germania, pubblicato nel 1936 come Une Révolution antiprolétarienne. Idéologie et realité du national-socialisme.
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(di seguito, la versione del 2021)
Simili, sono simili. Due regimi in cui il partito – più che lo Stato – tiene insieme società ed élites e governa tutto. La brutalità di fascismo e comunismo è spesso analoga, anche se le intenzioni dei massacri sono profondamente diverse: la pulizia etnica contro quella che era percepita come l’”élite cattiva” degli ebrei da una parte, l’annientamento di coloro che si oppongono alla costruzione di una società senza classi, senza dominio, senza sfruttamento dall’altra…
Non è però l’argomento morale che permette di distinguere davvero i due sistemi, tra i quali non mancano peraltro fenomeni di osmosi. Mussolini, che aveva fondato il fascismo e gli aveva dato forma – non senza una forma diabolica di genialità politica – era del resto un socialista rivoluzionario che si era trasformato in qualcosa di molto diverso. I fasci non erano l’imitazione dei soviet? Lenin non è stato un ispiratore nascosto del dittatore italiano?
Oggi che il comunismo è morto e il fascismo – più o meno “post” – rialza la testa, si torna a sottolineare le innegabili somiglianze. Le differenze, però, sono irriducibili. Obiettivi e basi sociali sono profondamente diversi.
Il comunismo voleva rifare tutto, azzerando ogni potere a parte quello del partito, sostenendosi sulle classi operaie. Il sogno originario era anche più ambizioso: la società prefigurata da Karl Marx, prima che Friedrich Engels desse vita a un marxismo traducibile in prassi immediata, era una società senza denaro, senza politica, senza conflitti, in cui i lavoratori associati si coordinano dal basso. La società ideale del comunismo è una società omogenea. La sua base sociale era il mondo degli operai, soprattutto specializzati, che nella visione di Marx, avevano in potenza – c’è molto Aristotele in Marx – la capacità di assumere tutte le funzioni produttive, comprese quelle svolte dai capitalisti, dagli imprenditori, dai manager.
Il fascismo guarda altrove. Vuole una società stratificata, con una gerarchia sociale fissa e tradizionale, congelata. Non l’abolizione della proprietà privata ma il corporativismo – nato dall’enciclica Rerum novarum in chiave chiaramente antiliberale, poi adottato da Mussolini – è la sua dottrina economica, di cui sono rimasti molti residui nei paesi occidentali, e soprattutto in Italia. I nazisti, che istituirono un controllo dell’economia molto simile a quello sovietico, pur nel rispetto della proprietà privata – ci furono anche alcune privatizzazioni, ma solo per premiare imprenditori amici – adottarono il modello dell’economia di guerra, sperimentata ed ereditata dalla Prima guerra mondiale.
Il fascismo è allora uno sviluppo del tradizionalismo e del conservatorismo, e la sua base sociale è totalmente differente. È l’estremismo delle classi medie, incattivite anche per i passi avanti che le classi operaie, grazie a partiti e sindacati fortemente organizzati, erano riusciti a fare, sia in termini sociali che in termini di riconoscimenti (che a chi restava indietro apparivano come privilegi) politici. C’è molta più di invidia sociale – ammesso che sia un aspetto rilevante – nel fascismo che nel comunismo (come alcune analisi tendono a sottolineare).
Basti guardare a quanto accade alla religione, nei due regimi. Il comunismo cerca di azzerarla, adotta l’ateismo di Stato. Il fascismo – che spesso, soprattutto nella versione germanica, si diletta con il politeismo – la lascia vivere, anche se sotto controllo, le lascia un posto ben definito e ne fa spesso una sua alleata.
Il fascismo è così più subdolo nelle sue origini. Il comunismo vuole e richiede una rivoluzione totale, che travolga tutto. Il fascismo evoca la tradizione, è più difficile da individuare nei suoi primi passi. All’estremismo degli squadristi si accompagna una più graduale involuzione democratica delle classi medie che ne forniscono il consenso, sotto lo sguardo benevolo di chi crede di far parte di una élite. Molti liberali conservatori sono stati ammaliati dal fascismo, e in Italia è stata necessaria la forza speculativa e caratteriale di un Benedetto Croce per dar vita a un antifascismo liberale (più attivo di quanto si voglia far credere).
Oggi, dopo una globalizzazione opportuna ma mal gestita e una lunga fase di politiche conservatrici che hanno premiato le élites nell’illusione che i vantaggi a loro riservati si propagassero – attraverso un sistema economico che crea forti interdipendenze tra individui e gruppi – a tutti i cittadini, le classi medie sono rimaste indietro, e sono di nuovo inferocite… Per i regimi liberali e democratici, plurali, pacifici, il pericolo, che ieri veniva dall’estrema sinistra, oggi viene allora dalla destra, e non solo da quella estrema.