Ronald Coase e il mistero dell’impresa e del mercato

Il suo prossimo libro comparirà a giugno 2011. Sarà dedicato alla Cina, a come è diventata capitalista. Il suo primo lavoro è invece del 1935, settantacinque anni fa. Non è un errore: Ronald Coase, premio Nobel per l’economia, compie il 29 dicembre 100 anni, ed ha ancora molto da dire.

È diventato famoso per un articolo scritto nel 1937, La natura dell’impresa. Un lavoro vecchissimo, si penserà, che però Hal Varian – il microeconomista che guida le ricerche per Google – considera fondamentale per capire il ruolo di internet, e la new economy.

Il problema di Coase è centrale per l’economia: perché esistono le imprese? «Se il coordinamento è fatto dal sistema dei prezzi, perché è necessaria questa forma di organizzazione?». La risposta è che anche il meccanismo dei prezzi previsto dal mercato concorrenziale, ha un costo: quello di raccogliere tutte le informazioni necessarie, quello di rinunciare a contratti a medio-lungo termine, quello dell’incertezza. Coase li chiama, forse un po’ semplificando, costi di transazione. L’azienda nasce, prospera e aumenta le sue dimensioni, spiega Coase nell’articolo che lui stesso considera più citato che letto, quando questi costi – tra i quali ci sono anche le tanto elogiate tasse sui consumi, evidentemente molto più distorsive di quanto si pensi – sono inferiori ai costi di organizzazione, nei quali sono compresi anche gli errori dell’imprenditore e dei manager.

Imprese e mercati si rivelano così due poli opposti dell’attività economica: da una parte c’è la gerarchia, la decisione amministrativa, il rapporto di dipendenza, dall’altra il coordinamento tra persone libere, autonome, formalmente uguali. Due realtà spesso confuse, soprattutto quando dalla scienza si passa alla retorica, e un atteggiamento a favore dei mercati si trasforma in un pregiudizio a favore delle imprese anche se monopoliste. Invece, sulla base delle idee di Coase, si potrebbe persino dire, come provocazione, che l’azienda nasca per un fallimento (o un’assenza) del "mercato concorrenziale", quello della teoria economica, e ne sia la negazione.

La scienza del mercato trova molto difficile spiegare la nascita e lo stesso ruolo dell’impresa. Kenneth Arrow e Gérard Debreu, che hanno formalizzato in modo matematicamente rigoroso la teoria dell’equilibrio economico generale hanno tentato di disegnare uno spazio per le imprese, ma diversi economisti si sentono a disagio con le loro definizioni, e preferiscono la versione di Lionel McKenzie, che parla piuttosto di attività, tecnologie. La parte più rigorosa della scienza economica resta per così dire priva delle aziende, e dei loro problemi.

Paradossalmente, resta anche senza mercati. «Nei moderni manuali – ha spiegato Coase – ci si occupa della determinazione dei prezzi di mercato, ma la discussione sul mercato in sé è scomparsa completamente. Ciò è meno strano di quanto sembri. I mercati sono istituzioni che esistono al fine di facilitare gli scambi, cioè essi esistono per ridurre i costi di conclusione delle transazioni. In una teoria economica che ipotizza che i costi di transazione non esistono, i mercati non hanno alcuna funzione da svolgere».

È per questo motivo che il Nobel da tempo ha preso un po’ le distanze dalla scienza economica attuale. Come Robert Solow, altro "grande vecchio" dell’economia più ortodossa. Personalmente Coase ha scritto quasi solo brevi lavori, privi di formule, lontani quindi dagli standard e dai cliché metodologici odierni. Non ama infatti le esasperazioni teoriche: «Non penso che le persone massimizzino l’utilità», ha spiegato in un’intervista alla rivista libertaria Reason. Ha cominciato quindi a parlare di crisi dell’economia già nel 2002: «In un corso moderno di economia si potrebbero ancora usare i Principles di Economics di Marshall, pubblicato nel 1890, o Economics di Samuelsi, prima edizione, pubblicato credo nel 1948: nelle cose essenziali, la materia non è cambiata», ha detto, quasi provocatoriamente. È una critica tanto radicale quanto feconda.

Le idee di Coase permettono però di aprire mille altre prospettive. È sua l’idea che sul mercato non si scambiano beni, ma diritti. Al di là delle implicazioni pratiche – si possono "creare" beni come il diritto di inquinare, e poi farli scambiare – è possibile così capire quanto ordinamento giuridico e mercato siano interrelati: «Mi sembra sia corretto pensare che se esiste qualcosa che si avvicina alla concorrenza perfetta, essa richiede normalmente un complesso sistema di norme e regolamenti», ha scritto.

Sarebbe però sbagliato identificare ordinamento giuridico e stato, regola e intervento pubblico discrezionale. Coase è un liberale, ma senza eccessi ideologici. Come James Buchanan – anch’egli un Nobel attento ai meccanismi giuridici – è partito da posizioni di sinistra, nel suo caso socialiste, e ha poi lentamente cambiato idea. Per il peso della realtà, e non quello delle idee, racconta: alla London School of Economics, «ho studiato i risultati delle imprese municipali di utilities e gli effetti della nazionalizzazione, soprattutto degli uffici postali. Questo mi ha generato gravi dubbi: non producevano i risultati che molti dicevano. Le mie idee sono state sempre guidate da indagini sui fatti».

Per questo Coase, considerato il padre della deregulation, respinge la qualifica di liberista: «Non rifiuto alcuna politica senza valutare quali siano i risultati. Se qualcuno dice che ci devono essere nuove regole, io non dico che saranno cattive». «Vediamo», propone di fare. Anche se poi non è in grado di ricordare un caso solo di regole buone: «Credo che il governo operi oggi su una scala così grande che ha raggiunto lo stadio di quelli che gli economisti chiamano rendimenti marginali negativi. Ogni cosa in più che fa, fa disastri; ma questo non significa che, riducendo le sue dimensioni di molto, non troveremo che ci sono alcune cose fatte bene», ha spiegato.

Coase appartiene quindi a un’altra Scuola di Chicago. rispetto a quella di Milton Friedman, Gary Becker, George Stigler… La sua Scuola è la prima, quella di Frank Knight,  da lui molto citato, che sottolineava – come Keynes, ma forse con minor enfasi – il peso dell’incertezza non riconducibile al calcolo delle probabilità e l’esistenza di comportamenti non sempre razionali; quella, un po’ più lontana da Coase, ma sempre attenta al ruolo delle regole, di Henry Calvert Simons, che osò proporre una "politica positiva" del laissez faire, per eliminare ogni forma di potere monopolistico, tale da far arrossire di indignazione un liberista di oggi e da far tremare i polsi di un interventista per la sua radicalità.

Friedman e i suoi allievi, con grande onestà intellettuale, hanno però accettato le conseguenze delle teorie di Coase. Persino di quelle che ridimensionavano il ruolo dei diritti di proprietà. Non ha importanza, spiegava il Nobel, chi possiede una cava: il mercato deciderà qual è il modo più efficiente di sfruttarla, in ogni caso. Allo stesso modo, sempre facendo riferimento alla realtà dei fatti, mostrò – con gran dispetto del "keynesiano" Paul Samuelson – come non sia necessario che i fari, considerati beni pubblici, debba essere di proprietà "statali", e finanziati con le tasse: nell’Ottocento erano privati, anche se di utilità comune.

In ogni caso, c’è la lezione dei fatti che prevale su teorie utili ma troppo astratte, quella del rigore che vince sulla retorica. Auguri professor Coase.

  • Aldo |

    Lettura molto interessante, sarebbe possibile , magari in qualche altro articolo approfondire la natura dell’impresa?

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