Reddito universale di base, una misura (neo)liberale

È considerata una proposta populista, soprattutto in Italia. Socialista, anche. Ai conservatori sicuramente non piace. Ai liberali? Ai liberali autentici, e persino neoliberali, piace, e fin dai tempi di Thomas Paine. Anche perché è, da tempo, una loro proposta[1], da attuare in sostituzione di gran parte di un welfare state considerato molto invasivo, in fondo di ispirazione bismarkiana, quindi illiberale. Il reddito di base (o reddito minimo, o reddito universale: le formulazioni sono molto diverse) ha trovato grandi sostenitori tra i liberali e liberisti più rigorosi

Non è lo stesso istituto introdotto in Italia come Reddito di cittadinanza, e che somiglia piuttosto – sulla carta, non nella sua applicazione concreta – a un sussidio di disoccupazione, accompagnato da un sistema di agenzie con la funzione di facilitare l’incontro e l’offerta di lavoro. Il reddito minimo garantito – e le misure simili proposte dai liberali – è slegato da qualsiasi merito e da qualsiasi bisogno; e per questo non piace ai conservatori, ma neanche a molti socialisti che amano uno Stato che definisca, a volte paternalisticamente, quali bisogni debbano trovare soddisfazione (e che intervenga, va aggiunto, in modo discrezionale).

È un sistema alternativo rispetto a quelli esistenti oggi. Non è paternalistico come le misure a sostegno dei poveri dei conservatori i quali – sottolinea Matt Zwolinski, docente all’Università di San Diego, liberista e grande sostenitore di questo strumento – «vogliono aiutare i poveri, ma solo se possono dimostrare che lo meritano saltando attraverso una serie di “cerchi” imposti proprio per dimostrare la loro volontà di lavorare, di star lontano dalle droghe e, preferibilmente, di sistemarsi in una vita familiare bella, stabile, borghese». Non è neanche come il welfare attuale, “progressista” – nel significato comunemente attribuito a questa parola – che fornisce servizi o sussidi «come un modo di garantire che i poveri abbiano l’aiuto di cui hanno “davvero” bisogno».

Zwolinski è solo l’ultimo di una lunga serie di economisti e pensatori liberali favorevoli a strumenti simiili. Si trovano proposte di redditi minimo garantito, a sorpresa, in due dei grandi economisti neoliberali. Milton Friedman e Friedrich Hayek. La proposta di Friedman, l’imposta negativa, è piuttosto nota. Si tratta di versare un sussidio automatico a tutti coloro che hanno ricavi al di sotto di una certa soglia: un sussidio calante man mano che il reddito aumenta. È un sistema – spiega in Capitalismo e libertà, del 1962 – «diretto in modo specifico a risolvere della povertà. Dà aiuto nella forma più utile agli individui, il denaro. È generale  e può sostituire la multitudine delle misure speciali oggi in vigore. Rende esplicito il costo per la società. Opera fuori del mercato. Come ogni altra misura per alleviare la povertà riduce l’incentivo di coloro che sono aiutati ad aiutare se stessi, ma non elimina l’incentivo totalmente, come un sistema di reddito supplementare o un minimo prefissato».

Non era un’idea sostenuta solo da Friedman, in realtà. Ne aveva parlato – lo ricorda Flavio Felice in Popolarismo liberale. Le parole e i concetti in cui riscopre l’attenzione di molti liberali per la solidarietà sociale[2] – già Antoine Augustine Cournot nel 1838 e, più vicino a noi Robert Lampman (1960), James Tobin, Joseph Pachman e Peter Mieszkowski (e prima ancora, si può aggiungere, da Juliet Rhys-Williams, economista e politica liberale coautrice del Beverdige Report che ha disegnato il moderno welfare state).

Friedman era ben consapevole del problema politico posto da questo sistema: con grande evidenza toglie i soldi ai contribuenti per distribuirli a chi non lavora e non guadagna abbastanza. In qualsiasi momento potrebbe mancare il consenso verso questa misura che «può essere convertita in una in cui una maggioranza impone tasse a suo beneficio – secondo l’economista Deirdre McCloskey il welfare state oggi è un grande sistema di distribuzione all’interno della classe media – o anche uno in cui una maggioranza impone tasse, a suo beneficio, a una minoranza, suo malgrado».

Nel 1980, in Liberi di scegliere, Milton e Rose Friedman (sua moglie) precisarono il loro pensiero. Il sistema dell’imposta negativa «fornirebbe un minimo garantito a tutti coloro che si trovano in condizioni di necessità, indipendentemente dalle ragioni della loro condizione, recando il minimo danno possibile al loro carattere, alla loro autonomia, a loro incentivo a migliorare la propria condizione».

Perché funzioni davvero, secondo Friedman, il sistema dovrebbe sostituire l’attuale welfare, nel quale «alcune persone, i burocrati che amministrano i programmi, governano la vita di altre persone». Fatte salve alcune circostanze specifiche che potrebbero richiedere comunque misure aggiuntive. Inoltre i singoli individui dovrebbero provvedere alla loro pensione.

La misura non piacque, non alla destra a cui Friedman, e altri neoliberisti, guardavano (anche se Nixon introdusse un sistema vagamente ispirato a questa proposta. Lo stesso Friedman già nel 1966, notò nel saggio View from the Right, che la sua proposta «è stata accolta con notevole (anche se non unanime) entusiasmo dalla sinistra e con notevole (ma ancora, non unanime) ostilità dalla destra».

Non bastò, questo fenomeno, a far dubitare Friedman della compatibilità, in realtà molto difficile, tra conservatorismo e liberalismo. «Eppure, secondo me, – scrisse – l’imposta negativa sul reddito è più compettibile con la filosofia egli obiettivi dei sostenitori del governo limitato e della massima libertà individuale che con la filosofia e gli obiettivi di coloro che sostengono il welfare state e un maggior controllo del governo sull’economia». Sfuggiva a Friedman, economista, che la distinzione tra destra e sinistra si gioca sul tema dell’eguaglianza, che la destra è pronta a disconoscere anche se solo formale.

In Liberi di scegliere, Friedman lo definisce allora un «sogno utopistico», perché «troppi interessi costituiti – ideologici, politici, finanziari – sbarrano la strada». Molti di questi interessi – non tutti – sostenevano il mondo conservatore. C’è un’ispirazione egualitaria, oltre che liberale, nella proposta: «La virtù [di una imposta negativa sul reddito] è proprio quella che tratta ciascuno allo stesso modo. Non c’è alcuna discriminazione tra le persone», scrisse ancora Friedman.

Anche l’altro grande neoliberale, Friedrich Hayek, era decisamente favorevole. «Ho sempre detto di essere favorevole a un reddito minimo per ogni persona nel paese»; scrisse in Un dialogo autobiografico. Gia in La via della Libertà, del 1944, in realtà aveva affermato che «non c’è ragione perché in una società come la nostra, che ha raggiunto livelli generali di benessere» almeno la sicurezza di un reddito minimo «non debba essere garantita a tutti senza danneggiare la libertà di tutti». «Non può esservi dubbio – aggiunse più avanti – che un minimo di cibo, di abitazione e vestiario, sufficienti a preservare la salute e la capacità di lavoro, debbano essere garantiti a tutti». Sono affermazioni che, in quel contesto, sono circondate da molte specificazioni e incontrano molti vincoli (molti “ma” e molti “però”, insomma), ma sono sufficientemente chiare.

In Legge, Legislazione e Libertà, l’ultimo grande libro di Hayek, in cui comincia a essere evidente una svolta conservatrice ancora negata nel 1960, in La costituzione della libertà il discorso diventa più esplicito. «La garanzia di un certo reddito minimo per ciascuno, una sorta di pavimento sotto il quale nessuno debba cadere anche se fosse incapace di provvedere a se stesse, sembra non solo essere una protezione pienamente legittima contro un rischio comune a tutti, ma una parte necessaria della Grande Società in cui l’individuo non ha più specifiche pretese sui membri del piccolo gruppo particolare in cui è nato».

Per Hayek, è una scelta decisamente liberale. «La concezione di base del liberalismo classico, che solo può dar vita a un governo decente e imparziale, è che il governo deve considerare tutte le persone come uguali, per quanto diseguali possono essere nei fatti; e che in qualunque maniera il governo freni (o sostenga) l’azione di una persona, così deve, sotto le stesse regole astratte, frenare (o sostenere) le azioni di tutti gli altri. Nessuno ha una pretesa speciale sul governo, perché è ricco oppure povero, al di là della garanzia della protezione contro ogni violenza da ciascuno e la garanzia di un certo reddito minimo».

Cambia, in Hayek, la cultura politica che sostiene questa proposta, il sistema di idee che in genere lo circonda. «È deplorevole che lo sforzo di assicurare un minimo uniforme a tutti coloro che non possono provvedere a se stessì sia stato collegato allo scopo, completamente diverso, di assicurare una “giusta” distribuzione dei redditi». Nelle stesse pagine, del resto, Hayek si scaglia – non senza qualche argomento interessante – contro l’idea della “giustizia sociale”, che rappresenterebbe un’indebita proiezione all’intera società di una solidarietà possibile, forse necessaria, solo nei piccoli gruppi.

Tra i libertarians americani – i liberisti d’oltreoceano, che ormai si dividono in mille diverse correnti alcune delle quali guardano a sinistra (una sinistra libertaria, a volte anarchica, ovviamente) – sono tanti i sostenitori del reddito universale (John Tomasi, Loren Lomaski, Gerald Gaus, oltre a Zwolinski). Per Zwolinski, in particolare, sono tre i motivi liberali e liberisti che depongono a favore di un reddito universale: sono «molto meglio» del welfare state, sia sul piano dell’efficienza che della libertà (qualche dubbio può venire, però, per il mercato sanitario, decisamente atipico), oltre a essere meno paternalistico; potrebbe essere in qualche modo doveroso, come «risarcimento per le ingiustizie subite in passato»[3]; e necessario, pragmaticamente, per risolvere il problema della povertà.

In Italia, Felice è vicino alla posizione di Luigi Einaudi, che era aperto alla proposta di un reddito minimo garantito, ma dopo aver tenuto conto di tutta una serie di elementi (e di possibile conseguenze) che ne potrebbero limitare l’adozione. Il rischio è che si trasformi in un «diritto all’ozio». È quindi una scelta pragmatica mentre il principio liberale di base, ricorda Felice, è che «lì dove c’è miseria, la libertà non ha cittadinanza, e dove la libertà non può esprimersi la miseria non trova ostacoli». In Francia, nel mondo liberale, il reddito universale – sotto forma di un credito di imposta – è stato recentemente proposto da Claude Gamel, in Esquisse d’un libéralisme soutenable. Travail, Capacités, Revenu de base.

Il reddito di base è uno di quegli elementi che permettono di capire quanto lontani possano e debbano essere liberalismo e conservatorismo. Ronald Reagan e Margareth Thatcher, che hanno adottato una retorica neoliberale, hanno ridimensionato il ruolo dei sindacati e hanno ceduto a privati aziende pubbliche (non sempre creando un mercato) – misure decisamente conservatrici – ma non hanno manifestato particolare attenzione per queste proposte. Ancora la “big society” di David Cameron puntava alle charities, non al reddito di base.

Il liberalismo rigoroso, però, è un’altra cosa.

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[1] Anche a sinistra non mancano ovviamente proposte simili: Bertrand Russell, James Mead, Erik Olin Wright, Philippe van Parijs, André Gorz e più recentemente Jeremy Corbin. Nel campo più propriamente conservatore, anche se ispirato al pensiero neoliberale, Charles Murray ha proposto nel 2016, sul Wall Street Journal un «reddito garantito per tutti gli americani»: 10mila dollari l’anno più 3mila da destinare a un’assicurazione sanitaria.

[2] Nel libro, pubblicato da Scholé, Felice ripropone il popolarismo di Luigi Sturzo, anch’esso profondamente liberale, ma al tempo stesso vicino alla dottrina sociale della Chiesa.

[3] Il sostegno recentemente manifestato da Mark Zuckenberg e Elon Musk va forse interpretato in questo senso.