Marx, Keynes, Hayek. Sono i tre economisti che hanno segnato la vita e la cultura degli ultimi due secoli, con tre proposte diverse di società, incompatibili tra loro. Marx è stato il teorico del comunismo, ma prima ancora il teorico della insostenibilità del capitalismo. Keynes ha fornito per primo un solido fondamento alle politiche economiche anticicliche, quelle in grado di contrastare le crisi (che in realtà non sono nate con lui, ma furono introdotte già dal Peel Banking Act del 1844). Hayek ha segnato il liberalismo degli ultimi decenni, con il suo tentativo di dar vita a un’”utopia liberale” e di riproporre l’idea della “società libera”.
Le loro proposte politiche hanno un inquietante tratto in comune: la passione per la dittatura.
Il caso di Karl Marx è noto. Marx credeva che per introdurre il modello socialista occorresse una dittatura, la dittatura del proletariato. Solo dopo si sarebbe potuto costruire il socialismo e il comunismo, nei quali – aggiunse nel Capitale – si sarebbe potuta davvero realizzare la “libertà individuale”. Molti marxisti hanno tentato di minimizzare il riferimento alla dittatura, ma Marx non lo fece. In una famosa lettera del 1852 al giornalista comunista Joseph Weydemeyer lui attribuì – e questo è un aspetto molto interessante dell’analisi marxiana – tutta la sua analisi dell’economia moderna a storici ed economisti “borghesi” (oggi li chiameremmo liberali) attribuendo a se stesso solo un piccolo contributo: “Il mio contributo è stato: 1. Mostrare che l’esistenza delle classi è limitata solo a certe fasi storiche nello sviluppo della produzione; 2. che la lotta di classe porta necessariamente alla dittatura del proletariato; e 3. che questa dittatura, in sé, costituisce niente di più che una transizione all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classe”.
L’idea della dittatura del proletariato come fase di transizione appare già nel Manifesto del Partito comunista, del 1848, e fin nella postuma Critica del programma di Gotha, scritta nel 1875, dove – è vero – Marx parla anche ella possibilità di una transizione non dittatoriale, nei paesi con forte tradizione democratica (all’epoca Gran Bretagna, Stati Uniti, Olanda).
Marx, che ha una forte consapevolezza storica, tale da impedigli sbavature, non fornisce ovviamente, “modelli” di dittatura temporanea. Weydemeyer invece, per dare un esempio di dittatura di transizione (sempre nel 1852) parlò di Oliver Cromwell.
Meno noto, ma curiosamente simile, è il caso del liberale Friedrich Hayek.
Heyek pensava che “alcune democrazie sono state possibili solo con il potere militare di alcuni generali”, e che “si sono stati molti esempi di governi autoritari sotto i quali la libertà personale è stata più sicura rispetto a molte democrazie”. “Sono totalmente contro le dittature come istituzioni di lungo termine – aggiunse in un’intervista a un giornale cileno – ma una dittatura può essere un sistema necessario per un periodo transitorio. Alle volte può essere necessario per un paese avere, per qualche tempo, una forma o un’altra di potere dittatoriale. Come potete capire, è possibile per un dittatore governare in modo liberale, ed è anche possibile per una democrazia governare con una totale mancanza di liberalismo. Personalmente preferisco un dittatore liberale a un governo democratico che manchi di liberalismo. La mia personale impressione è che in Cile stiamo assistendo a una transizione da un governo dittatoriale a un governo liberale… durante questa transizione potrebbe essere necessario mantenere certi poteri dittatoriali , non come qualcosa di permanente ma come soluzione transitoria”. Il dittatore liberale era Augusto Pinochet, non esattamente un modello di liberalismo; ma quando si trattò di fare un esempio storico, Hayek indicò Oliver Cromwell.
Un po’ diverso, perché in questo caso non si parla di dittatura temporanea, è il caso di John Maynard Keynes, un liberale molto elitario, ma decisamente anticomunista (anche se oggi domina, anche in Italia, una lettura marxiana delle sue opere) e disilluso sul laissez faire (come molti liberali della sua epoca, sia conservatori che “sociali” nelle concrete scelte politiche). Nell’introdurre la traduzione tedesca della sua Teoria generale, pubblicata nel 1936, in pieno regime nazista, Keynes scrisse che “la teoria complessiva della produzione, che questo libro si propone di offrire si adatta più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario [Totaler Staat] di quanto lo sia la teoria della produzione e della distribuzione di un dato output ottenuto in condizioni di libera concorrenza e di prevalente laissez faire”. Come possa una teoria – che, semplificando, è vera o falsa – “adattarsi più facilmente” a un regime piuttosto che a un altro, sfugge un po’. Evidentemente era a Keynes che sfuggiva la distinzione tra economia positiva, l’analisi, dall’economia normativa, la politica economica, che erano state chiaramente separate da… John Melville Keynes, suo padre.