L’Afghanistan, e il liberismo

No, non è colpa del liberismo se l’occupazione dell’Afghanistan è finita male. È stata una classica operazione militare, in cui si è tentato di colpire i gruppi terroristici talebani e, parallelamente, effettuare operazioni di peacekeeping nelle aree effettivamente controllate dagli alleati. Si è anche cercato di dar vita a uno stato nuovo e a ricostruire l’economia, creando un settore dei servizi e favorendo un’élite cittadina, nella speranza che trainasse – al momento opportuno – l’intero paese.

È stata un’operazione militare tradizionale, dai forti connotati conservatori. Della democrazia si è adottata la versione elitaria: il voto come selezione delle élite di governo; dei diritti e della libertà la versione “giuridica”, con la creazione di un ordinamento controllato da una corte suprema. È crollato tutto in pochissimi giorni.

Allora il liberismo cosa c’entra? Non c’entra, ed è questo il problema. Perché non si costruisce la democrazia, non si costruiscono diritti, non si costruisce l’eguaglianza se non c’è il mercato. Un mercato vero, ovviamente, caratterizzato da un’ampia diffusione di potere economico e corretto dalle necessarie istituzioni – anche i sindacati che, ricordiamolo, sono sorti spontaneamente, liberalmente – che sostengono il difficile mercato del lavoro.

È una tesi controcorrente, questa. Sembra dar ragione a Einaudi contro Croce, impegnati nella discussione su liberalismo e liberismo, ma non è così: quel colloquio si svolse a un altro livello ( e sarebbe il caso di riprenderlo davvero sul serio[1] ). Non parla neanche del liberismo “thatcheriano” o “reaganiano”, che era una politica conservatrice, di nuovo elitaria, associata a una forma di propaganda che si alimentava di stilemi liberisti, adottati nella loro forma più ingenua[2].

È il liberismo nel senso di una visione che dà rilevanza al mercato, non solo come fatto economico, più o meno efficiente – può non esserlo, e l’analisi scientifica è oggi pronta a coglierne tutti i suoi aspetti, positivi e negativi – ma come fatto anche politico: come sostegno necessario, finora non sostituibile, anche se non sufficiente alla pace e ai diritti degli individui.

Nessuna illusione, innanzitutto: non esiste una provvidenza immanente che prenda la forma di una “mano invisibile”, così come non c’è d’altra parte un “homo oeconomicus” che si opponga all’uomo completo: queste ingenuità sono state superate da oltre un secolo[3]. La pace e i diritti non sono né garantiti né mantenuti dai mercati: la crescente interdipendenza creata dalla divisione del lavoro, la presenza di imprese con ampie e spesso burocratiche gerarchie, le imperfezioni del mercato del lavoro sono anzi fonte continua di frizioni, di tensioni e persino di conflitti (si pensi al ruolo dei sindacati).

Il mercato – non lo stato, non le imprese, non i partiti (non sempre, almeno) – ha però bisogno di pace: pace all’esterno e pace all’interno di un paese. Ha bisogno quindi di democrazia, che permette l’avvicendamento pacifico al potere e crea fiducia nell’operato delle istituzioni (che a sua volta richiede partecipazione politica non solo elettorale) e rispetto dell’ordinamento giuridico. Ha bisogno di un potere, anche economico, diffuso (monopoli, oligopoli, posizioni di rendita sono i suoi nemici). Ha anche bisogno di lavoratori, a tutti i livelli, liberi, razionali, consapevoli, competenti e non solo in termini strettamente produttivi. Un giorno forse gli uomini e le donne daranno vita a un sistema diverso di organizzazione sociale che permetterà di ottenere le stesse cose (è l’“apertura” alla creatività dello spirito umano che nel dialogo su liberalismo e liberismo Croce volle sottolineare, e giustamente). Oggi abbiamo il mercato, e poco altro.

Il mercato ha bisogno anche di una società civile vivace, partecipe (un tempo si sarebbe parlato di “borghesia”, ma oggi non ha più senso): ha bisogno di un ambiente propizio che non può essere meramente economico, richiede il cosiddetto “capitale sociale”. La vivacità degli Stati Uniti del 1835 descritta da Alexis de Tocqueville, con le sue associazioni, manifestazioni di imprenditorialità sociale[4] e leadership diffuse, la spinta continua a fare, organizzarsi, è fondamentale, nella definizione di una società libera; e spiega molte più cose della lotta di classe che Karl Marx apprese dagli storici borghesi e liberali della stessa epoca, e di certe riduttive visioni economicistiche.

Il mercato, insomma, crea un interesse – concreto, sociale, non solo intellettuale, astratto – per pace, democrazia, diritti, partecipazione, persino per l’eguaglianza[5] (che però vanno perseguiti e introdotti per via politica). Tra i liberali e i liberisti Ludwig von Mises, in qualche modo, ha tracciato almeno i contorni di questa sua caratteristica.

Nulla di tutto questo ha animato l’intervento in Afghanistan. Il compito era immane, ma la guerra è durata 20 anni, il tempo sufficiente per formare almeno una prima generazione (senza contare che un regime laico è già stato sperimentato) di “homines (et dominae) novi”. Si sono usate armi e sovvenzioni per creare coesione sociale in un mondo fortemente frammentato e lacerato. Sono state spese risorse ingenti – superiori all’intero Piano Marshall europeo, pur considerando l’inflazione – per addestrare l’esercito e per costruire infrastrutture. I risultati sono stati scarsi, sotto tutti i punti di vista.

È chiaro che non si poteva intervenire in tutto il paese, mai sotto il completo controllo degli alleati. Quante zone economiche speciali, che potessero diventare una calamita anche per le altre aree, sono state allora create? Solo negli ultimi anni se ne è parlato – l’ex presidente Ashraf Ghani, un antropologo, ha lavorato alla Banca mondiale – ma non se ne è fatto nulla. Balkh, Kabul, Kandahar, Helmand, Herat, Jalalabad, Mazar-i-sharif, Nangarhar, Aqina, Toraghundi, e Zaranj erano i distretti selezionati, ma mancavano i finanziamenti.

Durante un’occupazione militare, in una di queste aree si sarebbe anche potuto sperimentare l’idea delle charter cities proposte da Paul Romer, economista (e premio Nobel) nella teoria della crescita, che rappresentano un’evoluzione delle zone economiche: piccoli distretti, con regole speciali – non solo economiche_ anche civili, democratiche, sociali – ben difese militarmente, che potessero svilupparsi e alimentare l’emulazione, fare da avamposto in Asia centrale della prosperità, dei diritti, della democrazia che qualcuno raccontava di voler “esportare”.

Gli alleati hanno speso risorse ingenti per questa guerra: secondo il Cost of War Project della Brown University, gli Usa hanno impiegato 2.236 miliardi di dollari (compresi 530 miliardi di interessi sul debito aggiuntivo), dei quali 143 miliardi sono stati destinati al nation building e di questi 83 nell’addestramento dei militari afghani. A questi vanno aggiunte diverse decine di miliardi spese da ciascuno dei grandi alleati (Gran Bretagna, Germania, Canada, Italia, Francia). Si sono avvantaggiate le élites urbane e si è, molto probabilmente, alimentata la corruzione.

Il paese è stato aiutato, ma solo fino a un certo punto. Il pil del paese è effettivamente salito molto rapidamente dai 7,5 miliardi (di dollari 2010) del 2002 – corrispondenti a quattro miliardi di dollari dell’epoca – a 21,8 miliardi del 2019, ma dal 2012 in poi – in termini di crescita del pil pro capite – l’Afghanistan è praticamente in recessione. Il tasso di povertà è salito dal 33% del 2007 fino al 55% della popolazione. Ogni anno entrano sul mercato del lavoro un milione di giovani, e il sistema economico non riesce ad assorbirli.

Le ong – una classica forma di imprenditorialità sociale – hanno iniziato le loro attività molto presto, istituendo scuole, ospedali, agenzie di microcredito, mentre a livello pubblico internazionale solo nel 2018 la Geneva Conference on Afghanistan ha iniziato a occuparsi davvero di temi prettamente economici: i precedenti vertici degli alleati, quasi sempre svolti in sede Nato, si sono occupati di dettagli militari e di alcuni aspetti del nation building (elezioni, corte suprema, sistema giuridico peraltro basato su sharia e tradizione afghane non certo market friendly e poco compatibili con i diritti umani).

Gli obiettivi sono stati decisi dall’alto: agricoltura (ma la siccità del 2018 ha colpito duramente il paese), miniere (in effetti molto promettenti) e commercio intraregionale. Tutta l’attenzione è stata rivolta all’intervento macroeconomico – è stata perfino definita una complessa procedura di pianificazione dello sviluppo, se non altro come strumento burocratico di accounting dell’uso delle risorse donate – laddove  occorrevano misure che incidessero a livello microeconomico.

L’occupazione militare, malgrado il forte impegno finanziario della coalizione, non è riuscita neanche a contenere il costo della sicurezza a carico dello stato afghano: le spese per questo obiettivo hanno assorbito fino al 30% del pil e ha assorbito la maggior parte degli aiuti internazionali, pari a circa il 40% del pil. Una parte dello sforzo delle riforme è stato quindi orientato all’istituzione di nuove imposte, a cominciare dall’Iva.

L’intervento sull’economia è insomma arrivato tardi, e si è svolto secondo le consuete, e in genere fallimentari, linee guida degli interventi internazionali di sviluppo, se non dirigistici sicuramente animati da una logica di engineering che poco si adatta alla complessità di una qualunque società di 30 milioni di persone (e soprattutto del sistema afghano). L’errore era però in partenza: gli obiettivi erano militari e politici, si è puntato alla creazione di uno stato e non di un sistema integrato politica-economia-società. Compito arduo, sicuramente, da realizzare soprattutto facendo leva sull’attività “spontanea”[6] della popolazione locale, ma mai neanche tentato.

( scritto tra le comodità del mio soggiorno, questo post è evidentemente una provocazione: cosa sia accaduto e cosa accada in quel paese, cosa si sarebbe potuto davvero fare, è inimmaginabile per un Occidentale che non vi abbia vissuto, e a lungo, e non abbia studiato quella società. Le sue tesi richiederebbero inoltre ampie elaborazioni, e molti caveat, impossibili in un post )

Null’altro che una provocazione, quindi. Fino a un certo punto, però… )

 

[1] È stato appena pubblicato, di Raimondo Cubeddu, l’interessante e ricco volume La cultura liberale italiana (Rubbettino), che attribuisce a quella discussione l’arretratezza del dibattito italiano. Tesi più asserita che dimostrata, in realtà. Cubeddu ritiene che Croce condivida e riproponga l’idea hegeliana dello Stato. Non è così, per nulla: Croce è persino ingeneroso quando critica il pensiero politico di Hegel, e giunge da parte sua a considerare lo Stato “un gruppo di persone” o a identificarlo, quando allarga lo sguardo, con l’organizzazione sociale in senso lato. Al punto da spingere l’anarchico Camillo Berneri a elaborare la nozione, apparentemente contraddittoria, di stato anarchico: l’organizzazione sociale post-rivoluzionaria. Guido De Ruggiero era hegeliano, Croce no (e, a un certo punto, rifiutò anche di qualificare come idealismo la sua filosofia). Il liberalismo italiano – e nel testo di Cubeddu se ne fa qualche accenno – e mondiale non ha voluto affrontare le istanze sociali che animavano il socialismo, pur avendone gli strumenti, e per questo non ha conquistato le menti e il cuore di intellettuali e cittadini; mentre, d’altra parte, la discussione tra liberalismo e liberismo – purtroppo abbandonata – è uno dei momenti più alti del liberalismo italiano.

[2] Non è neanche il caso di citare (se non in nota, appunto, e per chiarezza) il Cile di Augusto Pinochet. Un liberismo senza liberalismo politico e senza democrazia è una mostruosità autoritaria e tale si è rivelato. Senza se e senza ma.

[3] Chi non lo ha fatto, è rimasto schiavo della retorica, e ha perso tutta l’enorme discussione su liberalismo, liberismo e neoliberalismo in corso da decenni.

[4] Un esempio brillante di imprenditorialità sociale, di cui si è recentemente parlato molto, è Emergency, organizzazione senza scopo di lucro di grande successo e dai risultati sanitari eccezionali.

[5] Un sistema economico di mercato perfetto, come ha mostrato Léon Walras, mantiene immutata la distribuzione delle risorse ed è compatibile con qualsiasi distribuzione delle risorse. Ovviamente i mercati concreti sono tutti imperfetti, ma una crescente diseguaglianza potrebbe essere sintomo di un sistema economico in cui posizioni di rendita, che erodono il mercato e la cultura che lo sostiene, diventano sempre più importanti.

[6] Il termine è vago e abusato, anche nella cultura del liberalismo e del liberismo. Lo uso qui per mera comodità: la discussione sulla spontaneità di cui parlava Benedetto Croce nella Storia d’Europa, o sull’ordine spontaneo di Friedrich Hayek, con i loro connotati romantici (e, nel caso dell’economista austriaco, anche anti-razionalisti) sarebbe immensa.

  • svalente1 |

    Non esiste la virgola espressiva. Prima di e congiunzione mai la virgola, perchè è un controsenso. Certamente sarebbe stato errato iniziare con E dopo il punto. Non ha senso accusare di purismo.

  • Riccardo Sorrentino |

    È una virgola espressiva. Intende separare, un po’, quel che la “e” congiunge. Se ha letto l’articolo avrà capito perché. Probabilmente un punto e virgola sarebbe stato più ortodosso, ma non si usa nei titoli: mentre un punto fermo, per ricominciare un periodo con la “E” maiuscola sarebbe decisamente brutto, oltre che eccessivo rispetto a quanto volevo suggerire. Meglio allora affrontare le critiche dei puristi e sperare che gli altri colgano la sfumatura. È stata una scelta consapevole.

  • svalente1 |

    Non ssono d’accordo con la grammatica. Il titolo sarebbe giusto senza la virgola. Se usi e congiunzione non devi usare la virgola.

  • carl |

    In questo mio mini post mi limito a sottolineare l’importanza che a mio avviso riveste il livello di educazione, istruzione, di cultura (veramente tale) quale premessa per il maggior o minor successo di ogni iniziativa che miri alla costruzione o, diciamo, alla “ristrutturazione” sul piano sociale-politico ed economico di una comunità in qualche modo e forma già esistente. Come ad esempio (ma non solo) il Paese o nazione di cui tratta il presente articolo.

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