A cosa “serve” studiare latino e greco? È una domanda che riceve quasi sempre risposte non molto sensate. In genere oltretutto si concentrano sul solo latino, che insegnerebbe a ragionare (ma è chiaro che la logica sarebbe più utile, o forse addirittura lo studio di quei linguaggi logici artificiali, come il Lojban, che evitano ogni ambiguità); a trovare le etimologie (come se non fosse meno dispendioso consultare un dizionario); a parlar bene l’italiano, (come se non fosse più proficuo leggere i tanti autori che della nostra lingua fanno un uso raffinato, dal titanico Dante al cristallino Petrarca, al dolcissimo Tasso, al greco Leopardi, al Croce, passando per l’odiato D’Annunzio, o più recentemente a Calvino e Gadda, per citare solo alcuni)….
È una domanda antica, se anche Antonio Gramsci, all’inizio del 900 dà una risposta assai poco convincente: “Il latino non si studia per imparare a studiare in latino, ma per imparare a studiare”. Un compito, questo, che non giustifica però gli sforzi necessari… Del greco, intanto, non si parla mai.
La domanda però è importante perché si lega a un’altra: ha ancora senso il liceo classico? Non sono poche le voci che ne chiedono l’abolizione, perché inutile, perché poco moderno, poco adatto a preparare i giovani per la vita in una società complessa.
La domanda è quindi fondamentale, e non può essere risolta semplicemente osservando – come pure si potrebbe fare, ma in un contesto diverso – che la cultura non “serve”: la formazione di un giovane, proprio nel senso di bildung, va al di là – ma non è incompatibile, in pieno senso kantiano (o crociano) – dalle considerazioni di utilità.
La risposta è in realtà semplice. Si studia il latino e si studia il greco per entrare, direttamente, nel cuore della civiltà greca e romana, e di tutta la civiltà europea umanistica, fino alle soglie dell’Illuminismo. La civiltà, la cultura europea – è stato giustamente notato – ha una particolarità, rispetto alle altre: riconosce che prima di lei ci sono state altre civiltà (occorrerebbe aggiungere anche quella ebraica), di cui si è presa cura, senza cancellarle. Altre culture – il caso dell’Islam è immediato, anche se una parte del recupero della cultura greca si deve in realtà ai filosofi arabi e persiani – hanno invece tentato di cancellare le civiltà a esse precedenti.
Questa particolarità della cultura europea, che in questo modo si sente “derivata” da altre, le ha permesso – insieme ad altri fattori, tra cui la frammentazione politica e dunque la sua poliarchia – di avere un confronto aperto e relativamente rispettoso nei confronti delle altre culture. Ancora poco esplorato è, per esempio, il rapporto che dal ‘600 in poi l’Europa ha avuto con la Cina, quanto del Regno di mezzo ha imitato, quanto ha respinto.
Per secoli il latino e il greco sono stati studiati per questo motivo: per avere accesso diretto alle nostre radici. Il ruolo di Padre dell’Europa di Petrarca, uomo disilluso dalla povertà morale dei suoi tempi, che cercava le virtù dell’Europa nell’epoca di suo maggior splendore, non può essere sottovalutato. Come non può essere sottovalutato il ruolo del “suo” Cicerone, oggi dimenticato e disprezzato.
Questo però significa due cose. Occorre innanzitutto imparare il latino e il greco come se fossero lingue vive, e non morte. C’è, in Italia, chi asserisce che è l’approccio sbagliato. All’estero, invece, i metodi di studio tendono a insegnare latino e greco antico così come si insegna il tedesco e lo spagnolo.
Il secondo aspetto è che non ci si può limitare alla cultura letteraria. In Italia la cultura umanistica è diventata soprattutto letteratura, laddove era filosofia, filosofia vissuta; ma anche politica, in Grecia – tutto Platone è politico, e tutta la classe dirigente britannica, per decenni, nel XIX secolo, si è formata studiando la Repubblica come noi studiamo la Divina commedia – e diritto: il diritto e la libertà repubblicana di Roma, ma anche all’opposto quello imperiale di Giustiniano. Non si può capire Grecia, Roma, Europa senza la sua meravigliosa storiografia; e non possiamo dirci davvero europei, e italiani, se non abbiamo ben studiano l’umanesimo latino, a cominciare da quel De dignitate hominis, di Giovanni Pico della Mirandola che è quasi un manifesto della cultura europea. L’enfasi sul latino classico e sulla letteratura in italiano, ha portato a dimenticare e a sottovalutare molti capolavori della nostra civiltà.
L’umanesimo, e la cultura umanistica , sono molto di più che la letteratura, e l’aver schiacciato il primo sulla seconda ha fatto del liceo classico un percorso di studi molto criticato e criticabile.
In un mondo complesso come quello attuale, tre discipline ci permettono di affrontare questa complessità: la filosofia, la storia e la matematica. Se il Liceo classico non ha nulla da rimproverarsi sulle prime due, è decisamente indietro sulla matematica (e la logica), che sono ormai fondamentali. Il liceo classico non può sopravviviere senza un curriculum matematico che sia addirittura superiore rispetto a quello dello scientifico: all’aspetto tecnico – che va ampliato con la statistica – deve aggiungere anche il significato culturale della matematica: delle ricerche sul quinto postulato di Euclide (e quello che ha significato lo sviluppo delle geometrie non euclidee), dell’analisi matematica (senza la quale non si capisce Leibniz, Kant, Hegel, ma anche Rousseau e la sua volonté générale, che lui interpreta come un integrale) o della teoria degli insiemi e delle strutture (importanti in tutto il 900).
Le critiche al liceo classico si basano però anche su altre due caratteristiche non legate alla sua struttura, ma alle cattive tradizioni che lo danneggiano. La prima è quella che attribuisce un carattere elitario al liceo classico, rispetto allo scientifico o ad altri istituti superiori tecnici. Falso, come è falsa la teoria delle élites. In qualunque scuola si può semplicemente essere presenti, e conquistare il “foglio di carta”; ci si può istruire; oppure ci si può davvero formare. Le scuole inoltre arrivano solo fino a un certo punto: forniscono una serie di opportunità di conoscere, piantano alcuni semi che potranno sbocciare o restare sterili. Nulla di più. Difficile che ci si possa definire “colti” se non si sono studiate a fondo le tre Critiche di Kant, ma quanti lo hanno fatto[1]? Non si può pensare che in un liceo si possa fare anche questo.
L’altra cattiva tradizione è quella del “bello stile”, colto, pieno di brillanti ma superficiali analogie, magari anche infarcito di citazioni (ma questo aspetto è fortunatamente quasi sparito) che il liceo classico tende a premiare. A sfavore della precisione del linguaggio, del rigore del ragionamento, del tenersi lontano da ogni fallacia argomentativa (che non si studiano), del controllo delle informazioni, della ricostruzione rispettosa delle opinioni contrarie; insieme, perché la cosa non è incompatibile, a uno stile elegante, raffinato, o all’opposto semplice, chiaro. Il liceo classico non può essere ancora fucina di vuoti retori.
L’unica vera obiezione al liceo classico, è allora quella, per così dire, dei “moderni”. Perché mai, in un mondo che dal 600 in poi, pur riconoscendo il suo passato, ha detto: ripartiamo da zero, dal dubbio iperbolico, per cercare le sole idee chiare ed evidenti, si dovrebbe studiare il latino e il greco, se quel mondo è stato costruito soprattutto in francese, in inglese, in tedesco (e, in parte, anche in italiano). Non è più importante entrare direttamente in contatto con la cultura che in quelle lingue si è espresso? Obiezione seria, questa, davvero… In Svizzera – dove, è vero, ci sono anche ragioni politiche e pratiche – si studiano anche quelle lingue, tutte. Male, a volte, ma si studiano. In Italia sarebbe improponibile.
[1] Chi scrive – per essere chiari – non lo ha fatto. Non come sarebbe necessario, almeno.