Cina sì o Cina no? Forse non ce ne siamo accorti, ma è il momento delle grandi scelte. Una di quelle scelte sulla collocazione internazionale dell’Italia – dei cittadini italiani – da cui discendono poi anche importanti decisioni di politica interna.
La Cina ha adottato una strategia di tipo espansionistico: militare, nell’area del Pacifico dove minaccia Taiwan, e non solo; economica, nel resto del mondo con il varo dell’iniziativa della Nuova via della Seta che ha lo scopo di attirare nell’orbita di Pechino sempre più paesi attraverso investimenti e legami commerciali; culturale, nel proporre – insieme alla Russia di Putin e altri regimi non liberaldemocratici – un nuovo modello di governance, quella che ha portato ancora di più Hong Kong nelle mani dell’autocrazia.
Questo espansionismo ha lambito l’Europa. La Cina controlla il porto del Pireo, sta strangolando il Montenegro – così come la Mongolia, lo Sri Lanka, e Gibuti – con un prestito capestro che ha come garanzia alcuni territori del piccolo Stato, ha messo un piede nell’Ungheria di Orban e il 23 marzo 2019 ha concluso con l’Italia del governo Conte I tre memorandum of understanding che non prevedono impegni ma definiscono comunque un legame tra i due Paesi. (Il presidente del consiglio Mario Draghi, non a caso, intende rivederli)
L’Unione europea ha intanto adottato a marzo del 2019 – una decina di giorni prima della sigla a Roma delle intese italiane con Pechino – una strategia complessiva e articolata nei confronti della Cina, definita come un partner strategico sul piano economico, con il quale occorre stabilire rapporti di reciprocità; ma anche un rivale sistemico «che promuove modelli di governance alternativi», una formulazione voluta dalla Francia di Emmanuel Macron ma sostenuta, per esempio, dall’industria tedesca, che pure ha in Pechino un importante cliente. Quando i leader del G-7 e della Nato hanno parlato di sfide sistemiche poste dalla Cina hanno “solo” coinvolto altri paesi, e allargato il discorso all’ambito militare.
La reazione della Cina si è fatta sentire anche nel nostro Paese, mostrando quale possa essere il suo appeal. L’ex primo ministro Massimo d’Alema ha pubblicato un video in cui elogia i risultati economici del Regno di mezzo senza far cenno proprio a quei problemi politici che il modello cinese pone – assenza di democrazia, di libertà civili, di diritti umani – mentre nel giorno stesso in cui il presidente Usa Joe Biden faceva il suo discorso contro la sfida cinese, il ministro degli Esteri italiano Luigi di Maio e il fondatore del suo partito Beppe Grillo erano ricevuto all’ambasciata di Pechino a Roma, quasi a sottolineare i legami tra i due Paesi. L’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte, invitato, avrebbe declinato.
Grillo è andato anche oltre. Ha pubblicato un articolo importante sul suo blog. Non firmato da lui, ma dal filosofo Andrea Zhok, docente di Antropologia filosofica e di Filosofia morale all’Università di Milano. Zhok è un filosofo molto interessante: ispirandosi alla fenomenologia di Husserl, ha scritto testi su Scheler Wittgenstein, sul rapporto cruciale tra libertà e natura, sullo stesso liberalismo e la sua logica pervasiva nell’Occidente.
Colpisce molto, allora, la povertà del testo da lui proposto. Povertà intesa in senso tecnico: non è un’offesa per liquidare le sue idee, ma il risultato dell’analisi delle sue argomentazioni. Zhok, infatti, ha fondato il suo discorso su una metodologia tanto diffusa quanto semplicistica, basata sulla contrapposizione tra amico/nemico, una forma di realpolitik cinico/realistica e una visione elitaria (rovesciata nel populismo) delle complesse società moderne. Il tutto sullo sfondo di un moralismo mal integrato con il resto del discorso.
Zhok ha ricondotto il pensiero e l’azione dei leader occidentali, così come si è manifestato dopo l’ultimo vertice della Nato, a una classica costruzione di un “nemico”. Un procedimento, questo, ben descritto (e persino esaltato) dal giurista ultraconservatore e filonazista Carl Schmitt, che il filosofo triestino non cita, ma che è ormai padre spirituale di tutte le correnti culturali, di destra e di sinistra, che si richiamano a una forma estremizzata e irrazionale di realismo politico che spesso sfocia nel cinismo e fa spesso ricorso a una interpretazione molto semplificata della cultura del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud, che erano comunque pensatori complessi).
Gli Usa, l’Europa, la Nato – insomma – stringendosi attorno a «valori comuni» costruiscono la Cina come un assolutamente ‘altro’, dipinto secondo Zhok «in termini caricaturali e disumanizzanti». È una «parata ideologica», dice Zhok, e «il modello argomentativo è quello sperimentato dalla ‘guerra fredda’». Peccato però che i rapporti non solo economici, ma anche culturali – accademici e scientifici, per esempio – tra Cina e ‘Occidente’ siano molto più ampi e molto più stretti di quelli esistenti tra i due antagonisti sui due versanti della Cortina di ferro.
Importazioni ed esportazioni, flussi finanziari, scambi culturali e tecnologici rendono Cina e Occidente – i loro cittadini, le loro imprese – interdipendenti, con tutte le frizioni generate dai rapporti di interdipendenza. Non è, questa rete di rapporti – come si illude ancora qualcuno – una garanzia di pace: nel 1914, la Germania era il secondo cliente della Gran Bretagna e viceversa, eppure i due Paesi sono riusciti a farsi guerra (non senza elevatissimi costi economici, però).
Il paragone con la Guerra fredda è in ogni caso del tutto improprio; e non è questo che i leader occidentali volevano e potevano fare. Non a caso, qualche anno fa, si è parlato tra gli analisti di politica internazionale di “guerra fresca”. Il confronto tra Usa, Europa e Cina, insomma, è molto più complesso e quello che a Zhok appare propaganda è solo una parte di una complessa costruzione, anche culturale, simbolica, dei rapporti tra due aree che tendono a essere entrambe protagoniste.
L’argomentazione più interessante, perché ancora più povera, viene però dopo: in sostanza, dice Zhok, “così fan tutti”. Gli Usa, la Cina, la Russia fanno tutti la stessa cosa: ampliano la propria sfera d’influenza, con gli strumenti che hanno, come la potenza militare e la potenza economica (e, si può aggiungere, il soft power). È un’argomentazione sentita molto spesso, che però non permette di risolvere il problema: decidere “da che parte stare” (e, prima ancora, se occorre “stare dalla parte di qualcuno”).
Zhok vi fa solo un accenno implicito, quando dice che i paesi europei devono seguire «obtorto collo – scrive il filosofo – perché sanno di essere il vaso di coccio sacrificabile dell’impero americano cui gli Usa non possono più garantire un futuro affluente». Sembrano in realtà, questi ultimi, buoni motivi per abbandonare l’alleato americano – e infatti l’uso retorico che ne fa il filosofo triestino è ambiguo – ma l’idea che gli Usa abbiano garantito, e non possano più farlo, un futuro affluente all’Europa, è un’affermazione banale – gli Usa sono un mercato e un centro di innovazione importante – ma anche sbagliata se interpretata, come fa Zhok, a senso unico. Anche l’Europa è importante per gli Usa (e per entrambi è importante il mercato cinese); ed esattamente per gli stessi motivi.
Un’Unione europea succube degli Usa è affermazione che non regge a un controllo empirico; così come non regge a un controllo empirico l’idea che gli Stati siano o possano essere sovrani, tantomeno al punto da colonizzare medie potenze, alcune delle quali nucleari. Neanche gli Stati Uniti sono sovrani, neanche loro possono imporre ovunque la loro volontà (come mostrano per esempio, le guerre perse e quelle finite nel nulla).
Non è questa però l’obiezione principale. Il punto è: stiamo adottando, come invita a fare Zhok, un approccio di Realpolitik? Allora le considerazioni morali (“così fan tutti”) sono fuori luogo (se non altro perché ovvie). Anche se, come insegna l’approccio realista – o meglio proprio perché – fan tutti così, occorrono ragioni davvero forti per costruire un campo di alleanze e non un altro. Perché, insomma, l’Italia dovrebbe costruire – da sola e in una posizione altrettanto forte (o debole) rispetto agli attuali alleati – un rapporto nuovo con la Cina, come Pechino chiede? Questa è una domanda che Zhok non si pone e a cui non risponde.
O meglio vi risponde a contrario. Zhok spiega perché non dovremmo stare dalla parte dei leader dell’Occidente quando chiamano a raccolta contro Cina e Russia. Perché, spiega, quei «valori comuni» – «democrazia, eguaglianza, libertà di pensiero» – sui quali si fonderebbe la chiamata alle armi dei leader occidentali, non sarebbero evocati in modo autentico.
Quei valori non sarebbero minacciati da Russia e Cina (e invece lo sono, purtroppo, anche attraverso i loro “amici” in Italia e altrove): «Quella minaccia ce l’abbiamo in casa», scrive. I cittadini occidentali «per poter parlare senza censure» si sposterebbero addirittura «su social media russi». L’amore per il paradosso porta ad affermazioni davvero insostenibili…
Sarebbe sbagliato però soffermarsi su questi dettagli. Zhok, in modo più profondo, entra nel terreno del populismo più autentico. Un populismo che, malgrado qualche esasperazione argomentativa, non va demonizzato, ma va letto con attenzione. È la logica del molti contro pochi, del popolo contro le élites. Non è questo il luogo di criticare la posizione populista (che, si può accennare, sbaglia perché troppo semplicistica). Ammettiamo allora, per amore della discussione, che sia tutto vero; che Zhok abbia ragione. Le élites invocano quei valori ma nello stesso tempo insieme indicano un nemico per evitare che «la gente non sposti lo sguardo» da lui perché «spostarlo su di sé, andando alla ricerca dei “nostri valori”, può risultare fatale».
Grande è, a questo punto, la confusione sotto il cielo. Non è difficile mostrarlo.
La prima obiezione è semplice. Perché non lo hanno fatto prima? Chi era il nemico cinque, o tre anni fa? Forse che non c’erano già numerose contestazioni e proteste sociali dopo la grande recessione? Forse non era chiaro che la Cina era destinata a crescere rapidamente e a svolgere un ruolo sempre più da protagonista? E prima della grande recessione? E ancora prima? (Non sarà forse perché la Cina, fino a poco tempo fa ripiegata su se stessa ha deciso di adottare una strategia più aggressiva?)
La seconda è ancora più semplice. Perché queste élites, pur continuando a considerare Pechino come antagonista, non adottano argomentazioni analoghe a quelle della Cina, della Russia, della Turchia di Erdogan, del Brasile di Bolsonaro, dell’Ungheria di Orban? In fondo qualcuno, anche in Occidente – anche tra i Cinque stelle – fa esattamente questo. Non sarebbe più facile?
Per alcune élites in realtà questo gioco non è possibile perché quei “valori”, per “noi altri” che delle élites non facciamo parte, non sono mera retorica, non sono propaganda. Solo elementi che fanno parte di una concezione della vita, personale e civica; e occorre tenerne conto per ottenere il nostro consenso; e se la Cina, se la Russia vanno in una direzione diversa, incompatibile, allora è normale per noi chiedere che il proprio Paese abbia una politica estera conseguente. Non necessariamente aggressiva (non può esserlo, del resto, perché l’interdipendenza è grande), ma conseguente. Cioè indipendente innanzitutto e in primo luogo da quei paesi.
Questione del tutto diversa è se anche quei leader, quelle élites, quei paesi che dicono di condividere e sostenere la nostra concezione della vita, allo stesso tempo la minacciano. Se la invocano, innanzitutto, non possono minacciarla fino in fondo, perché perderebbero consenso; e questo è un primo punto, quello che distingue in modo radicale, strutturale, le forze politiche e i regimi liberaldemocratici da quelli che liberaldemocratici non sono: per i primi e nei primi non solo il potere ma anche l’ipocrisia del potere ha un limite (fu il problema che angustiò gli anarchici, di fronte al fascismo e alle elezioni convocate per suggellarne il potere, e non accorgendosi della profonda distanza tra i regimi fecero un grave errore).
Sfugge a Zhok che libertà, democrazia, eguaglianza non sono mai date. Sono continuamente (ri)conquistate. È sempre vero (così fan tutti…): il potere, quello dei governi, quello delle numerose “élites” (qualunque cosa davvero esse siano), dei gruppi di potere, delle imprese, delle mafie, corrompe e cerca di accrescere i propri spazi.
I sistemi liberaldemocratici hanno però il vantaggio, rispetto agli altri, di essersi lentamente costruiti attorno all’idea della poliarchia, della compresenza di più centri di potere, anche economici (il mercato) e nei limiti del possibile dell’eguaglianza del potere e della libertà di ciascuno. Ci riescono in modo imperfetto, ma permettono a tutti – purché lo vogliano – di porre continuamente e di nuovo e con sempre maggiore profondità il problema, in mille modi diversi. C’è un giudice a Berlino, ma anche a Washington e persino a Minneapolis; e c’è anche un sindacato. A Pechino no.
Certo, non viviamo in sistemi perfetti, il nostro non è il paradiso, non può esserlo. Lo sono però ancor meno la Russia, la Cina, in Turchia, in Brasile. Avremmo la stessa possibilità di porre continuamente il problema della libertà, dell’eguaglianza, dell’indipendenza, della democrazia se l’autocrazia che Xi, Putin, Erdogan, ma anche Orban, Le Pen, e i loro amici italiani, propugnano e tentano di diffondere nel mondo – perché, non va dimenticato (e Zhok lo fa), quei Paesi si pongono come modelli e qualcuno anche da noi vuole imitarli – avessero il sopravvento? No.
Zhok è persona intelligente. Conosce l’argomento. Obiettare – afferma allora – «dovremmo allora diventare come Russia e Cina? » significa adottare «una retorica spiccia, buona per un patriottismo da bar sport». Ha ragione (anche se l’argomentazione, di nuovo, è debole); però è importante che la collocazione internazionale di un paese sia coerente con gli obiettivi, la volontà, la storia dei suoi cittadini, o almeno di una parte importante, non minoritaria di essi.
«Agitare questo pericolo – aggiunge il filosofo, riferendosi ancora all’omologazione – serve a dissimulare il semplice fatto che ad averci reso le colonie e i protettorati che siamo non sono né i russi né i cinesi». Possibile – in che senso però saremmo colonie e protettorati? Chi non è “interdipendente” in un mondo in cui la sovranità è un mito? È una questione interessante e complessa, che non si può esaurire con una battuta – ma uscire da questo stato di dipendenza, nei limiti del possibile, non può farsi isolandosi, o “giocando di sponda” con i paesi più forti e più lontani da noi; e meno ancora alleandoci con loro.
Il punto chiave è che non siamo chiamati a difendere valori; né nostri, né altrui. Non solo perché valore è un termine economico, peraltro in buona parte desueto, e non ha senso – come pure si è fatto e si fa, da più di un secolo – applicarlo ad altri ambiti. È un concetto che cristallizza, ipostatizza, un’azione, una scelta, un processo. Fonda, dà vita alla logica amico/nemico, che non ha alcun senso in un mondo complesso.
Il vero punto di partenza è la nostra storia, il nostro amore per la libertà, l’eguaglianza, l’indipendenza, la ragione che ci guida verso di esse. Tutte cose che, se lo vogliamo, possiamo chiamare noi stessi a vivere e a difendere. È una storia, la nostra – ed è nostra spesso molto più che delle nostre “élites” – di lotte per ridimensionare e contenere chi aveva o voleva troppo potere: la storia della libertà. Lotte – le lotte di cui parlavano anche persone come Benedetto Croce, o Luigi Einaudi, non certo rivoluzionari – al plurale, ognuna distinta dalle altre, ognuna su un piano diverso, ciascuna con i suoi contendenti, senza confusioni.
Si può piuttosto argomentare che si sia persa la capacità di lottare, che la nostra idea di libertà politica si sia impoverita, che la democrazia e l’eguaglianza non faccia passi avanti (ma è davvero così?), che la nostra indipendenza sia imperfetta, che la nostra ragione sia stata resa impotente. È un problema, sicuramente. Non basta però per mettere sullo stesso piano i sistemi liberaldemocratici e le nuove autocrazie illiberali. La strada da percorrere è, evidentemente, un’altra e va in tutt’altra direzione.