Circola ormai da tempo, sulla rete, l’intervista della Frankfurter Allgemeine Zeitung a Guy Abeille, il funzionario del ministero delle Finanze che ha “inventato” la regola del tetto del 3% al rapporto tra deficit e Pil. Abeille spiega che il presidente François Mitterrand voleva un limite massimo alle spese pubbliche e diede alla struttura del ministero l’incarico di studiare quello “giusto”. Fu individuato il 3% semplicemente perché, partendo dal livello del 2,6%, il 2% sarebbe stato troppo arduo da raggiungere, politicamente, mentre il 3% sarebbe stato più “comodo”. Quel livello sarebbe stato poi adottato anche dalla Germania che – a quanto si racconta – in cambio avrebbe ottenuto un livello massimo del debito del 60%, quello tedesco dell’epoca.
Uno scambio di concessioni
Uno scambio, dunque? Possibile: l’euro è stato un progetto politico, generato dalla grande paura francese e britannica (ma anche italiana) della Germania Unificata; e anche dal timore, non certo mal riposto, che i costi della riunificazione tedesca sarebbero ricaduti su tutta Europa.
La logica nascosta dei due numeri
Anche così, però, non si può concludere che il trattato sia definito totalmente a caso. C’è una logica – scoperta ex post, ma prima di firmare i trattati – che li lega. Naturalmente scelte diverse restano possibili, ma gli economisti sono riusciti a legarli in una cornice “virtuosa”.
Il legame tra le cifre
Questa logica è semplice. Si consideri il peggiore dei casi ammessi da Maastricht: un paese con un disavanzo annuale fisso del 3% del Pil ogni anno – senza austerità, quindi, almeno in condizioni normali. Se quell’economia riuscisse a ottenere una crescita del pil nominale stabile del 5%, il suo debito pubblico raggiungerà nel lungo periodo il 60% del Pil, da qualunque livello si parta (nel grafico dal 124%). Con una crescita nominale stabile del 3,8% il debito calerebbe però all’80% del Pil, mentre con una crescita nominale al 3% il debito non scenderebbe sotto al 100% (o vi salirebbe se si partisse da livelli inferiori). Il 5% è quindi fondamentale per la coerenza del sistema.
Non tutto torna
Quel 5% è la somma del 2% di inflazione, il livello ammesso dalla Banca centrale europea, e di un 3% di crescita del Pil reale, piuttosto ambizioso per Eurolandia. Non a caso la Bce aveva indirettamente scelto un numero più basso. L’istituto di Francoforte aveva fissato come livello di riferimento per la crescita di M3, la massa monetaria, il 4,5% che corrispondeva in realtà, e sulla base di teorie economiche un po’ superate, l’obiettivo implicito per la crescita del Pil nominale. Con un’inflazione al 2%, quel 4,5% indicava come obiettivo del Pil reale un più ragionevole 2,5%.
Obiettivi realistici
La Bce ha mantenuto le sue promesse a lungo. Dalla nascita di Eurolandia fino allo scoppio della crisi il Pil nominale di Eurolandia è effettivamente cresciuto del 4,5%. Solo con la crisi quel tasso di crescita non è stato rispettato e ci si può chiedere se sia stata responsabilità della Banca centrale – non mancano economisti che lo pensano – o dei governi che non hanno introdotto riforme che tenessero il Pil potenziale al 2,5%. In ogni caso, quella crescita e i parametri di Maastricht consentono un rientro del debito pubblico, nel lungo periodo e nel peggiore dei casi ammessi, al 67% circa e non al 60%. Non tutto quindi è coerente.
E adesso?
Il pil potenziale di Eurolandia potrebbe essere calato, e di molto, dopo la crisi. Ipotizzando una crescita reale dell’1-1,5%, che corrisponde a una crescita nominale del 3 o del3,5%, i parametri di Maastricht consentono, sempre nel peggiore dei casi, una convergenza del debito rispettivamente fino al 100% e all’85% circa. Nel senso che gli stati con un livello del debito inferiore vedrebbero il proprio debito salire invece che scendere. In questi due casi il parametro corretto per il rapporto deficit/pil, seguendo la logica di Maastricht, sarebbe rispettivamentedell'1,7% e del 2%, con un obiettivo del 60% raggiunto molto, molto lentamente.