Il cambio cinese si apprezza. Non quello nominale che si muove lentamente – e pure è salito da giugno 2010 a febbraio 2011 del 3,8% circa rispetto al dollaro – ma sicuramente quello reale: l’aumento dei prezzi ha effetti molto simili a quelli di un rialzo della valuta sui mercati valutari. L’indice dello yuan effettivo reale – verso le principali valute dei partner commerciali, e al netto dell’inflazione – è così salito nel 2010, secondo i dati ufficiali, del 4,72 per cento. Dal 2005 a oggi, si è apprezzato del 17 per cento. Non è poco.
Se il discorso si restringe al dollaro – per quanto i calcoli siano imprecisi – emerge con nettezza una recente accelerazione. «Si può dire – ha spiegato Fred Bergsten del Peterson Institute for International Economics – che il cambio reale del renminbi sia salito di almeno il 5% verso il dollaro negli ultimi sette mesi, producendo un apprezzamento reale contro il dollaro a un tasso annuale di almeno il 10% e forse persino del 12 per cento».
È così che funzionano le cose, in presenza di un peg anche imperfetto – come quello tra yuan e dollaro che tecnicamente è un crawling peg, perché “striscia” nel tempo – o anche di un’unione monetaria, come Eurolandia: al posto delle valute si muovono, con grande lentezza, prezzi e salari. Se il cambio nominale è sottovalutato lo stimolo monetario può diventare tale, per diversi motivi, da creare inflazione. Il risultato è che l’enorme surplus commerciale cinese si sta riducendo. Ancora una volta non in termini nominali, ma in termini reali, in rapporto al prodotto interno lordo.
Sull’inflazione cinese, al 4,9% annuo a gennaio, si è scritto molto. Così come sugli aumenti degli stipendi, a volte concessi sull’onda di clamorose proteste. «Quando gli storici guarderanno al passato e descriveranno il 2010, la grande storia da raccontare sarà l’enorme aumento nei salari che ridefinirà il modello globale del settore manifatturiero e le prospettive di inflazione dei prossimi dieci anni», ha raccontato alla Bloomberg Dong Tao, capo economista per l’Asia (escluso Giappone) del Credit Suisse.
L’incremento dei salari del 13% registrato l’anno scorso segna una forte accelerazione rispetto al 2009, ma resta in realtà al di sotto dei ritmi degli anni precedenti, quando si toccavano punte del 17%. Quello che è successo, allora, è che il costo del lavoro ha raggiunto una soglia oltre la quale emerge persino il rischio di una delocalizzazione verso altri paesi asiatici, più convenienti. La Collective Brands, che produce scarpe, sta per esempio già trasferendo parte della produzione in Indonesia.
Attraverso il cambio reale, insomma, le imprese cinesi perdono competitività, ma a vantaggio della stabilità complessiva del sistema economico. In dieci anni l’incremento medio dei salari reali cinesi – 12,6% contro l’1,5% dell’Indonesia e lo 0% della Thailandia – non sembra essersi allontanato molto da quello della produttività, in crescita tra il 10 e il 15% annuo dal 90 a oggi. A questi livelli, però, la domanda interna si sta facendo ora – finalmente! – impetuosa, e spinge sui prezzi.
Le prospettive sono ora quelle di ulteriori pressioni al rialzo sugli stipendi: i salari reali, con l’inflazione che sale, stanno rallentando o al massimo stabilizzano i loro incrementi; ma almeno 31 province potrebbero aumentare, per il secondo anno consecutivo, i salari minimi. Nel distretto di Shenzhen, intanto, compaiono gli annunci: «Paghe alte per assunzioni urgenti». La concorrenza si fa sentire anche sui mercati del lavoro.