Profitti e retribuzioni, il divario si allarga

Più redditi alle aziende, meno alle famiglie. La ripresa americana non è solo piuttosto debole, al punto da far temere un’altra recessione. È anche poco equilibrata: la quota del valore aggiunto – in sostanza il Pil – distribuito, in varie forme, come reddito da lavoro continua a calare. Nel secondo trimestre dell’anno è scesa ai minimi dal dopoguerra.
Il fenomeno è ormai molto evidente. Anche perché la quota dei redditi da lavoro è stata, negli Usa, stabile per molto tempo, con una tenace tendenza a tornare alla media di lungo periodo, pari al 65%, ogni volta che se ne allontanava. Ha cominciato però a scendere rapidamente dopo il ’99 – negli anni della bolla finanziaria – sfiorando il 60%, e dopo un rialzo piuttosto veloce è tornata a scivolare. Ora è al 59,8 per cento. I profitti aziendali sono intanto saliti: dopo il rallentamento del secondo trimestre, crescono ancora a un ritmo del 4,6% trimestrale, e hanno superato il 15% del valore aggiunto. La quota restante va ai lavoratori autonomi e ai datori di lavoro.
Cosa succederà adesso non è chiaro. «In una situazione normale – spiega Aneta Markowska di Société Générale Research che ha dedicato un’analisi al fenomeno – la crescita dei profitti fa scattare (attraverso gli investimenti, ndr) occupazione e aumenti di reddito, che a loro volta fanno crescere ricavi e profitti. Il rincorrersi di redditi e profitti è una caratteristica essenziale delle espansioni economiche».
L’attuale fase – continua – non è però normale: le famiglie tendono a risparmiare, anche per risanare i loro bilanci, e questo frena la domanda e interrompe il circolo virtuoso. Parallelamente, l’incertezza frena le aziende – già "in sciopero", sotto questo punto di vista, negli anni precedenti la crisi – dall’usare i profitti per investire. Il risultato è che accumulano cassa. In un passato ormai lontano, ogni dollaro di risparmio delle imprese riduceva i risparmi familiari di 0,50-0,75 dollari, ma non è saggio aspettarsi oggi un comportamento analogo.
Nel lungo periodo, per un paese come gli Stati Uniti, queste tendenze potrebbero anche essere considerate salutari. Nell’immediato, però, la ripresa potrebbe arenarsi, e così il risanamento delle finanze nazionali. «La diminuzione della quota di reddito da lavoro – continua Markowska – è un problema, perché la crescita dei redditi è condizione necessaria per un ordinato deleveraging (una riduzione dei debiti rispetto al patrimonio, ndr) delle famiglie»; mentre le aziende – a parte quelle finanziarie – hanno affrontato la crisi «in buona forma». Gli Stati Uniti sono quindi di fronte a un paradosso: «È possibile – continua Markowska – che i tagli dei costi stiano strozzando la ripresa».
Il vero problema, quello più difficile da affrontare, è però un altro. La tendenza alla flessione del peso dei redditi da lavoro parte da lontano, dall’inizio degli anni 80. Sul fenomeno, comune a tutte le economie ricche e persino più incisivo in Europa che negli Usa, ha acceso i riflettori il Fondo monetario internazionale nel 2006 e poi nel 2007 insieme al tema collegato della diseguaglianza. Gran parte della riduzione del peso dei redditi di lavoro ricade infatti sugli occupati con minori competenze, spiazzati dal rapido sviluppo delle tecnologie e – in misura minore rispetto a quanto viene percepito – dalle delocalizzazioni.
La sensazione di "restare indietro", che colpisce molte famiglie, mina la fiducia nel sistema sociale ed economico. La difficoltà diventa allora quella di trovare la politica più giusta per affrontare la situazione. Negli Usa, ma non solo, la scorciatoia trovata da Bill Clinton e magnificata da George W. Bush è stata quella di fornire crediti a condizioni favorevoli, soprattutto per l’acquisto della casa. Si sa come è finita.