Vincono le destre. Vincono in Italia, in Svezia, si affermano in Francia – insieme a una sinistra altrettanto sovranista e populista – e un po’ d’ovunque. Si grida, non del tutto a torto, al fascismo che torna, ma forse è più corretto parlare di una forma di democrazia plebiscitaria, illiberale; di cesarismo. Come vuole Orban, come voleva Putin – prima che il suo progetto perdesse credibilità nelle pianure ucraine. Come voleva anche Berlusconi. Il progetto di Fratelli d’Italia, che vede un presidenzialismo – o semipresidenzialismo – “arricchito” dalla sfiducia costruttiva (e oggi un premierato senza contrappesi) è il segno più concreto della cultura, che potrebbe essere chiamata “ungherese”, di questa destra. Insieme ovviamente al sovranismo (che in economia diventa nazionalismo) e al desiderio di comprimere almeno alcuni dei diritti di libertà.
È l’abbandono della dimensione liberale della democrazia. Il governo della legge, il rilievo alle camere rappresentative (che scelte direttamente dal corpo elettorale dovrebbero avere potere legislativo pieno, senza condividerlo o cederlo al potere esecutivo); il rispetto delle minoranze (anche perché in una società così stratificata non ci sono che minoranze), i diritti di libertà, l’attenzione al mercato non solo perché più efficiente, ma anche perché è un processo creativo, in grado di aprire strade nuove e, attraverso l’innovazione, migliorare il benessere economico: tutto questo ha sembra a rischio. Potrebbe non scomparire del tutto, ma è probabile che venga compresso, e non poco.
Perché si è arrivati a questo? Perché per decenni la cultura liberale non è stata in grado – malgrado la sua ampiezza, la sua duttilità, la sua… libertà – di proporre risposte valide ai problemi della società moderna; o, meglio, all’unico vero problema della società moderna, dal 1800 in poi: la convivenza con quel processo di distruzione creatrice imposto dall’economia, dalla tecnologia (anche bellica), dall’istruzione, dalla struttura sempre più plurale della società. Marx e il socialismo, Heidegger, il tradizionalismo, il comunitarismo di destra e sinistra (la communitas omogenea, nel discorso politico comune, ha ormai sostituito la polis) si sono posti questo problema, a volte rifiutandolo.
Il liberalismo no: basti pensare al successo che ha avuto il recupero di un polemista superficiale, anche se brillante, come Claude-Frédéric Bastiat, con le sue Harmonies économiques: ha dominato l’idea che il sistema – soprattutto economico – avrebbe sciolto tutti i nodi, e riportato l’armonia sociale. Nel lungo periodo, ha aggiunto qualcuno. Troppo semplice… Il problema non è tanto che nel lungo periodo saremo tutti morti – non è vero, e non lo saranno i nostri figli e i nostri nipoti, come Keynes ben sapeva – ma che nel breve e nel medio (e non solo…) siamo costretti a lottare, anche duramente. Se non altro contro i mille problemi della convivenza con le altre persone e con la natura.
È successo che – malgrado gli sforzi di Karl Popper, che voleva costruire un liberalismo libero, senza aggettivi – la cultura (e la politica) liberale si è costituita come una “società” chiusa, sempre più chiusa, nello stesso momento in cui – a parole, almeno – propugnava una società aperta. È diventato dottrinale, come il peggior marxismo, ha cominciato a stilare elenchi di eretici da espungere dalla propria genealogia, si è consegnato alle destre che lo hanno cancellato. Il ricchissimo dibattito culturale che si era aperto dopo la vittoria del comunismo in Russia e delle destre autoritarie in Europa per elaborare una risposta adeguata ai tempi, alle sfide, e alle trasformazioni dell’economia moderna – un dibattito a cui l’Italia ha dato un contributo importante e originale – si è, semplicemente, perduto.
Friedrich Hayek è stato, con tutta probabilità, l’artefice primo di questa chiusura. Sicuramente il più geniale. Il suo influsso intellettuale è stato enorme e non può essere negato; il suo pensiero è ricco e articolato e ogni critica deve essere molto attenta a quanto effettivamente ha detto (deve, in un certo senso, rispettarlo e onorarlo), ma è impossibile sottolineare le sue contraddizioni, i suoi limiti. Qui si possono fare solo pochi accenni, nella consapevolezza che una simile analisi dovrebbe essere molto pià ampia e articolata.
Il sostegno finale di Hayek, spesso evocato, alla dittatura (di Pinochet, nel caso concreto) come unico strumento per imporre un ordine liberale, una dittatura uguale e contraria alla dittatura del proletariato di Karl Marx, anch’essa orientata all’eutanasia dello Stato, è stato un campanello d’allarme importante, ma niente di più.
È il suo pensiero che è innervato di contraddizioni (senza che abbiano un valore propulsivo del pensiero come, tra mille ambiguità, nell’idealismo hegeliano, o anche in quello crociano): liberale non-conservatore (a suo dire, ma il dubbio è forte, soprattutto per i suoi ultimi anni) Hayek ha dato un valore enorme alla tradizione, costringendo la società civile in un “ordine”, sia pure spontaneo, che permette la diffusione delle informazioni e una lenta evoluzione – molto distante dalla schumpeteriana distruzione creatrice – ma molto meno la libera creatività umana. Nella sua concezione della società e del mercato c’è poco spazio per l’innovazione e men che meno per la costruzione consapevole di soluzioni ai problemi (che è invece il tema del pensiero politico di Popper). Il suo individualismo affonda le sue origini nel pensiero tradizionalista di Burke (e in quello del geniale Hume), mentre respinge il pensiero di Descartes, da lui mal compreso e poco conosciuto, che individualista – e anticostruttivista – lo era davvero. Il suo rifiuto della ragione espone il suo pensiero ai mostri dell’irrazionalismo.
Soprattutto, il suo rifiuto delle soluzioni consapevoli ai problemi sociali – che Popper respinge solo quando diventa una forma di engineering sociale ad ampio spettro, l’unico vero obiettivo polemico di un liberalismo che voglia proteggere la ricchezza della società civile – inserisce nella sua filosofia una sorta di anti-umanesmo che fa a pugni con il suo individualismo. Hayek ha sostenuto la libertà di tutti e insieme la necessità di vietare i sindacati. Il suo progetto di demarchia – costruttivista e astrattamente razionalista, contro i suoi stessi principi – appare come la chiusura definita delle società in una gabbia elitaria dove solo pochi hanno la libertà di agire. Non a caso il suo pensiero è stato definito come repubblicano, con tutte le ambiguità che il repubblicanesimo – a volte liberale, a volte comunitario – può avere.
Nella consapevolezza di scivolare verso la caricatura, si può dire che lo sforzo dei liberali più consapevoli e meno dottrinari sembra essere stato a lungo quello di sfuggire alla gabbia hayekiana, sentendosi però vincolati a portare omaggio al suo pensiero che, dal ’47 in poi, ha dominato su tutto il liberalismo.
Una cosa va chiarita subito. Il legame tra liberalismo e conservatorismo – che Hayek ha accettato e alla fine coltivato – non è meno un ircocervo del legame tra liberalismo e socialismo; ma tutto il pensiero liberale (e non solo, ovviamente) è in un certo senso innervato di contraddizioni ed è inevitabile che sia così. Il necessario è che queste contraddizioni siano riconosciute e sciolte. Pragmatico e concreto, anche se animato dal principio universale della libertà, politico e metapolitico insieme, il liberalismo non può che essere aperto a suggestioni che, qua e là, possono anche trasformarsi in contaminazioni. Aspirare a un liberalismo puro è un’impresa dottrinaria. Il liberalismo non può che essere libero.
Al pari di qualsiasi forma di dottrinarismo, il liberalismo di stampo hayekiano da tempo non si è posto il problema delle sue responsabilità o, meglio, di cosa può fare per farsi apprezzare. Ha preferito scaricare le colpe su altri. Anche nel corso delle ultime elezioni si è insistito su una dittatura di una cultura di sinistra ormai afasica, scambiando per ingegneria sociale quella che era l’evoluzione, sempre più plurale, della società civile (eppure, bastava leggere le sentenze dei tribunali, la storia della giurisprudenza); si è tornati a parlare dell’incapacità degli intellettuali a capire i mercati, senza rendersi conto che non si era in grado di proporre un’analisi attenta della concretezza del sistema economico, al di là della mera laudatio temporis actis; si è continuato a combattere un inesistente comunismo senza voler vedere la crescita di una destra che rinunciava radicalmente a tutti i principi del liberalismo.
Per un liberalismo che è stato sconfitto, e che ha meritato di essere sconfitto, esiste ed è possibile ulteriormente sviluppare un altro liberalismo che sarebbe infantile definire, ancora una volta, “nuovo”. Perché non è nuovo, ma è aperto: consapevole dei suoi ideali e della loro storia e, insieme, della tumultuosa realtà delle cose e della società civile, desideroso di risolvere le sue contraddizioni interne, attento alle domande a volte contraddittorie che vengono poste alla cultura e all’azione politica e intento a dare risposte. Basta cominciare a non distinguere tra liberali veri e liberali falsi e rinunciare a un certo sprezzante atteggiamento di superiorità, aprendosi alla cultura e al mondo.
Non è difficile. Basta porsi alcune domande. Dove sono davvero finiti Knight, Simons e la prima scuola di Chicago, i partecipanti al Colloque Lippmann, i nostri Amendola, Einaudi, Croce, Gobetti, De Ruggiero, Antoni, Rossi, Sturzo, i new liberals britannici da Houbouse a Beveridge, i francesi da Renouvier ad Aron, gli ordoliberali a cui si sono ispirati anche i socialdemocratici tedeschi? Possibile che il liberalismo non riesca a produrre una visione e un discorso del mercato che sia fondato sulla scienza economica e sulla realtà concreta delle cose, invece di rifugiarsi in un’immagine oleografica? Possibile che non abbia null’altro da dire ai più poveri e ai lavoratori tutti che affidarsi fiduciosi alle élites? Possibile che in un mondo in cui nessun gruppo o classe è maggioranza abbia ancora timore della democrazia? che non sappia fare i conti con l’eguaglianza, ora che si sa scientificamente e storicamente che non comprime né crescita economica né diversificazione sociale? E quindi (e ancora): perché rinunciare davvero a quegli autori che hanno cercato di confrontarsi con il socialismo, o di arricchirlo con un liberalismo non sempre annacquato: Dewey, Rosselli, Salvemini, o addirittura i socialisti liberali (di mercato) svedesi che hanno cercato di costruire un liberalismo per le classi popolari? E, per spingere il discorso all’estremo: Marx – no, non il marxismo: Marx – e i problemi che ha posto vanno sempre superficialmente respinti come Belzebù e i suoi demoni o vanno studiati senza cadere in luoghi comuni, come invitava a fare Schumpeter[1]?
C’è un mondo culturale immenso, a cui il dottrinarismo liberale ha chiuso le porte. Oggi è necessario riaprirle.
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[1] L’ex liberale Marx, con tutte le sue ambiguità e oscillazioni, è incomprensibile se non si fa riferimento alla straordinaria vitalità del mondo degli operai francesi e, ancor di più, britannici che nel XIX secolo si auto-organizzavano in società di mutuo soccorso e friendly society attive nell’assistenza, nella sanità, nella previdenza e, come cooperative, anche in alcuni settori economici: una sorta di società civile alternativa, che lui si illudeva potesse diventare il cuore di una società nuova. Autoritari alla Bismark, socialisti statalisti e qualche liberale l’hanno poi distrutta… Sul punto è in preparazione un post.