Il liberalismo muore. Le ragioni sono tante, ma una non va taciuta mai: la responsabilità dei liberali stessi, che hanno decisamente smarrito la strada.
L’emergere dell’illiberalismo
Forze illiberali, plebiscitarie, in nome del popolo e della democrazia (male intesa) ne stanno erodendo i principi, politici ed economici, finora rispettati perché inseriti solennemente nelle costituzioni. Le costituzioni stesse, il principio della divisione dei poteri, la terzietà dei giudici, il pluralismo delle scelte di vita, i diritti di libertà individuali, sono ovunque contestati.
Francia, Germania, Italia…
Le forze radicali, soprattutto quelle di destra, guadagnano consensi nelle urne: il Rassemblement national e La France Insoumise in Francia, Alternative für Deutschland e Swa in Germania, Fratelli d’Italia e Lega in Italia. I partiti più legati, anche se in modo molto timido, al liberalismo, non riescono a fare fronte comune. È così in Francia, in Germania; mentre in Italia il partito che al liberalismo conservatore si richiama (con molte, troppe contraddizioni) è alleato con la destra più radicale.
Dal Tea Party a Trump
L’esempio più emblematico è però quello degli Stati Uniti, dove il partito repubblicano ha cambiato identità: da John McCain, per citare l’ultimo dei repubblicani classici, a Donald Trump, il passaggio è stato tanto rapido quanto estremo, anche se non imprevedibile. Il radicalismo dei trumpiani, per quanto comprenda ormai frange razziste, suprematiste, antidemocratiche, un tempo escluse è stato preceduto e preparato dal movimento Tea Party, conservatore e populista ma “libertario” in economia. I liberal, intanto, cedono a una cultura dai toni spesso intolleranti, in nome di un codice morale considerato indiscutibile.
Il caso Milei
La passione che molti sedicenti liberali nutrono per Javier Milei, autoritario “anarcocapitalista”, soprattutto perché ha portato l’inflazione dal massimo del 25,5% mensile del dicembre 2023 al 2,4% di novembre (e dal 289,4% annuale di aprile al 166% del mese scorso), è l’esempio più recente di come si sia persa la giusta via.
I liberali e Pinochet
Non è la prima volta. In passato gli economisti “liberali” cileni che avevano studiato alla Chicago University (i “Chicago Boys”), avevano aiutato e sostenuto la dittatura di Arturo Pinochet, lodata da Friedrich Hayek, considerato da molti il maggior pensatore liberale del XX secolo, anche se lui stesso ha preferito da un certo punto in poi considerarsi un whig. Meno entusiasta fu Milton Friedman, che considerava temporaneo, perché insostenibile, il legame tra dittatura e liberalismo economico: uno dei due avrebbe “ceduto”. Qualche simpatia per Antonio Salazar era stata nutrita dai liberali nel secondo dopoguerra.
Von Mises e il fascismo
Si può poi dimenticare il sostegno fornito dai liberali al primissimo fascismo? Un economista liberale come Ludwig von Mises, ancora attento ai valori della pace e della democrazia, pur senza nascondere gli aspetti più sgradevoli del fascismo, ed essendo convinto che sarebbe presto caduto, ne lodava il suo ruolo storico nella sconfitta del bolscevismo in Italia: «[H]a salvato la civiltà europea. Il merito che il fascismo ha così guadagnato vivrà eterno nella storia».
Mussolini liberista
Non si deve dimenticare, a questo proposito, che il ministro delle Finanze del primo governo Mussolini, Alberto de Stefani, era allo stesso tempo uno squadrista e un liberista e liberista fu la sua politica. Nel discorso di Udine del 20 settembre 1922 Mussolini dichiarò: «Vogliamo spogliare lo Stato da tutti i suoi attributi economici. Basta con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore, Basta con lo Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato». Il 18 marzo 1923, al Secondo congresso internazionale delle Camere di Commercio, a Roma, aggiunse: «Io penso che lo Stato debba rinunciare alle sue funzioni economiche, specialmente a carattere monopolistico, per le quali è insufficiente. Penso che un Governo, il quale voglia rapidamente sollevare le popolazioni dalla crisi del dopoguerra, debba lasciare all’iniziativa privata il suo libero giuoco, debba rinunziare ad ogni legislazione interventistica o vincolistica che può appagare la demagogia delle sinistre, ma alla fine riesce, come la esperienza dimostra, assolutamente esiziale agli interessi ed allo sviluppo della economia». Non si comprende la posizione di Benedetto Croce su «Liberalismo e liberismo» – termine, quest’ultimo, non inventato da lui – se non si parte dalla politica economica liberista del primissimo fascismo.
Il liberalismo fuori strada
È come se il liberalismo avesse perso, a un certo punto della sua storia, gli anticorpi che avrebbero dovuto impedire l’emergere delle autocrazie. Non si tratta solo di questo, però. La cultura liberale ha anche rinunciato a dare risposte, dopo averne elaborate di ottime, ai problemi inevitabilmente creati dall’economia contemporanea, molto dinamica. Anche cittadini non radicali dei paesi occidentali si sono rivolti altrove: verso la socialdemocrazia o verso la democrazia cristiana, per i quali il liberalismo era subalterno ad altri obiettivi politici, in genere sociali; oppure ai conservatori. Alcune forse politiche si sono persino appropriate del nome di liberali: i liberal del partito democratico americano, in realtà socialdemocratici; o i liberali conservatori, in realtà veri conservatori, pronti a rinunciare ai principi del liberalismo se sfavorevoli agli imprenditori.
Le due ragioni del disorientamento
Cosa è successo? Perché i liberali hanno perso il controllo dei loro valori più profondi? Le ragioni sono diverse, ma possono essere ricondotte a due elementi centrali: la perdita dell’equilibrio fondamentale alla base del liberalismo, e l’esempio del bolscevismo.
Etica e utilità
Il liberalismo, fin dall’origine, ha cercato di trovare un difficile equilibrio tra valori ed efficienza, tra etica e utilità, tra le grandi dottrine etiche che hanno trovato il punto più elevato nell’approccio procedurale di Immanuel Kant e il miglior utilitarismo, a cominciare da quello di David Hume e di Jeremy Bentham (ancora evocato da von Mises nel 1927), poi decisamente male interpretato anche dai migliori studiosi. La trasformazione dell’utilità in efficienza ha poi portato a una generale laudatio temporis acti, a una tendenziale difesa dell’esistente.
La lezione perduta di Croce
Il liberalismo considerato falso, tardivo, anomalo, di Benedetto Croce si basa invece – la Filosofia della Pratica. Economica ed etica è il testo chiave – su una inevitabile sovrapposizione tra etica e utilità. Per il filosofo napoletano, tutto ciò che è etico – e la sua etica è kantiana – rientra inevitabilmente al concetto dell’utilità, sia pure in un senso peculiare; mentre esiste, per esempio nell’azione politica ed economica, un utile amorale.
Hayek, il rullo compressore
Hayek è probabilmente l’autore che ha permesso più di altri l’abbandono della tensione etica del liberalismo e del suo appiattimento sull’esistente. Il suo scetticismo verso la ragione è tipicamente conservatore, e permette di difendere chi è “in alto” nella gerarchia sociale conservatrice senza curarsi delle contraddizioni. Il principio, comunque molto importante, dell’ordine spontaneo, si fonda, così come è stato riproposto da Hayek sulla tradizione e lascia pochissimo spazio ai salti nell’innovazione, non solo tecnologica, che la rivoluzione industriale ha reso frequenti (e di cui la teoria economica ha saputo ben tener conto). Allo stesso modo non lascia spazio all’innovazione – come ha notato l’economista Edmund Phelps – la sua idea di mercato come sistema che veicola e dà unità alle informazioni disperse tra i suoi partecipanti.
La sfida del socialismo
La sfida del socialismo e del comunismo ha enfatizzato questo aspetto di difesa dell’esistente e ha impedito di vedere i problemi creati dallo sviluppo dell’economia. Si sono persino ripescate le irrealistiche «armonie economiche» di Frédéric Bastiat.
Le società per azioni
La nascita delle società per azioni, che, per il liberale Henry C. Simons, «stanno semplicemente impadronendosi del nostro sistema economico (e politica), semplicemente a causa di un’assurda generosità e mancanza di attenzione da parte degli stati nel concedere poteri a queste creature legali», ha profondamente modificato il sistema economico. La grande e giusta insistenza del liberali sull’individualismo – sempre inteso come individualismo sociale – non ha impedito che alle nuove corporation fossero quasi automaticamente attribuiti i diritti e le libertà dei singoli, creando forti squilibri tra individui e imprese.
I trust
Alla fine dell’800 si sono sviluppati, quasi per uno sviluppo spontaneo, per laissez faire, i trust, sia negli Stati Uniti, dove sono stati in parte contrastati con lo Sherman Act e le normative successive, sia in Germania, dove invece una sentenza del 1897 ha reso legittimi i patti che erano alla loro base. Nel 1928, il giurista tedesco Franz Böhm, che poi fondò con Walter Eucken e Hans Grossmann-Doerth la rivista Ordo, da cui originò l’ordoliberalismo, scrisse un saggio fondamentale sul potere economico (Il problema del potere privato, un contributo alla questione dei monopoli), mostrando la strada.
Il monopolio dei sindacati
Tutto questo è stato poi dimenticato nel secondo dopoguerra. Con von Mises prima e Hayek dopo, i monopoli sono stati considerati come fenomeni passeggeri – ma la loro persistenza dipende dalla effettiva dinamicità del sistema economico – o protetti dal sistema giuridico, dal governo. L’unico monopolio da combattere divenne ben presto… il sindacato, in aperta contraddizione con la libertà di associazione. Nel dopoguerra la dottrina giuridica statunitense, alimentata dal Volcker Fund, ha poi modificato l’interpretazione delle norme anti-monopolio, in base a un principio di efficienza. È importante sottolineare – anche perché non mancano eccezioni – che difficilmente i liberali contestano la proprietà intellettuale, i brevetti, che non sono altro che monopoli legali.
L’imitazione del marxismo
La cosa forse più grave, perché segnala una fondamentale subalternità del liberalismo, è stata l’imitazione del marxismo. Può sembrare paradossale, ma l’opposizione al socialismo più radicale ha spinto i liberali ad accettarne, rovesciati, alcuni principi.
Dal liberalismo alla lotta al comunismo
L’obiettivo dei liberali, di fronte allo sviluppo tumultuoso del socialismo – e, in misura molto inferiore, dell’economia sociale di ispirazione cristiana – è profondamente cambiato. Dalla promozione dei principi liberali l’obiettivo è diventata la lotta al comunismo. L’elogio di Mises al fascismo nasce per il suo presunto, e apparente, ruolo di oppositore del bolscevismo. Solo un orientamento hegeliano – o marxiano – può però far pensare che un obiettivo negativo e uno positivo, per quanto “aperto”, siano la stessa cosa.
La gerarchia sociale marxiana
Il socialismo marxiano ha creato una gerarchia sociale, in cui la classe degli operai specializzati erano la classe rivoluzionaria o, meglio, “intermodale”: quella che avrebbe potuto traghettare il sistema economico da un modo di produzione borghese a un altro, comunista. Era la classe che avrebbe liberato tutti. Le altre classi sociali erano destinate a scomparire – anche i borghesi, a causa delle concentrazioni industriali – o ad assimilarsi al proletariato industriale. La rivoluzione avrebbe fatto da levatrice.
La teoria delle élites
Il conservatorismo ha risposto con una gerarchia sociale opposta, attraverso la sua teoria delle élites, nella quale la classe dirigente, individuata innanzitutto dal fatto di essere numericamente inferiore alla “massa”, aveva il ruolo guida. È stato facile, per von Mises, sottolineare che la formazione di un’élite politica (o di qualsiasi altra élite, evidentemente) era effetto della divisione del lavoro. Qualunque attività economica o sociale è svolta da una minoranza, ma questo non crea diritti speciali o ruoli particolari. Immaginate, se potete, un mondo senza addetti alle pulizie: nelle città, nelle strade, negli ospedali, negli uffici… Il sistema economico, per prosperare, ha bisogno di un atteggiamento innovatore – è ancora Phelps a spiegarcelo – da parte di tutti: investitori, banchieri, imprenditori, manager, tecnici, operai, consumatori…
Il liberalismo e la società orizzontale
Il liberalismo non è compatibile con una qualsiasi forma di gerarchia sociale. È autenticamente liberale una società, un sistema economico e giuridico che permettano a chi lo voglia, per esempio, di provare a diventare imprenditore (ma non a salvarlo dal fallimento: gli individui restano responsabili). Fino a non molto tempo fa – le cose stanno cambiando – gli Stati Uniti, senza essere un sistema perfetto, offrivano grandi possibilità a chiunque avesse un’idea imprenditoriale considerata realizzabile (se ne trova una discussione in Difendere il capitalismo dai capitalisti, di Luigi Zingales e Raghuram Rajan). L’Europa invece decisamente no, è un sistema bancocentrico, forzatamente elitario e quindi conservatore.
Dalla libertà alla proprietà
Proprio Mises – un autore da non sottovalutare: i suoi errori e le sue contraddizioni sono da preferire a quelli di Hayek – ha però compiuto nel suo Liberalismus, del 1927, il passaggio da una visione positiva a una negativa, antibolscevica, del liberalismo. Per lui, era possibile ridurre il liberalismo, «se condensato in una singola parola» alla «proprietà», o meglio alla «proprietà privata dei mezzi di produzione»: «Tutte le altre rivendicazioni del liberalismo discendono da questa fondamentale rivendicazione», persino la pace, scrive.
La centralità dei consumatori
Mises è un razionalista, portatore di una visione molto dinamica dell’economia. Non è un classico conservatore, scettico verso la ragione – come lo era Hayek – ma è evidente che considerare centrale la proprietà dei mezzi di produzione può creare una nuova gerarchia sociale, centrata sui capitalisti. In Mises non è così: è sua l’idea della centralità – poi diventata enfaticamente sovranità – dei consumatori, che non costituiscono una classe sociale, ai quali anche i capitalisti devono assoggettarsi.
Imprenditori e banchieri
La soluzione di Mises ha però trovato interessanti paralleli nell’idea, più dettagliata e quindi più incisiva, dello sviluppo economico di Joseph Schumpeter, da lui affidata agli imprenditori coraggiosi e ai banchieri intelligenti, altre due funzioni sociali che acquistano quindi centralità. Il concetto, oggi giustamente contestatissimo, e decisamente conservatore, del trickle-down vive è animato dallo stesso atteggiamento.
Dal sistema liberale al capitalismo
Ancora più sottile è un’altra conseguenza della lotta al comunismo: di fronte ai molti capitalismi esistenti i liberali non elogiano oggi i “sistemi liberali”, o meglio quelli “più liberali degli altri”, ma “il capitalismo”, come se fosse ancora da combattere non il comunismo, che era un capitalismo di Stato, ma la versione propagandistica del comunismo come “altro dal capitalismo”, considerata evidentemente come reale. Un errore grossolano.
La mentalità anti-capitalistica
Hanno definitivamente “chiuso” il liberalismo, rendendolo impermeabile alle critiche, le molte analisi sulla “mentalità anticapitalistica”. La prima risale, di nuovo, a Mises, che non esita a chiamare in causa Freud – un altro aspetto della sua modernità, che lo rende molto diverso dall’anti-moderno Hayek – per spiegarla. I suoi epigoni non hanno saputo fare di meglio e hanno in genere ripiegato sulla “invidia sociale” degli “intellettuali”. Ancora una volta il sistema capitalistico – quello esistente – viene identificato come un sistema liberale (e a volte non lo è).
Vizi e vizi…
Il disagio verso i molti, inevitabili, problemi economici creati dallo sviluppo economico è soprattutto ricondotto a un “vizio morale”, a volte da parte degli stessi autori che in altri lavori sottolineano il ruolo positivo dei “vizi privati”. È un procedimento che non solo non ha senso dal punto di vista scientifico, ma non permette di riconoscere le difficoltà create dall’attuale sistema economico, per sua natura molto dinamico, e quindi le forme – più o meno giustificate, espresse in modalità più o meno condivisibili – di rifiuto dello status quo e di proposta politica.
Le difficoltà del capitalismo
I rapporti gerarchici all’interno delle moderne aziende – che nulla hanno a che fare con il mercato e il liberalismo – le incertezze del mercato del lavoro e dell’incontro tra domanda e offerta, i licenziamenti collettivi subiti per incapacità e irresponsabilità degli imprenditori, il ritrovarsi da parte dei consumatori in una posizione di debolezza nei contratti di lungo periodo, per adesionem, modificabili unilateralmente, e soprattutto verso banche e assicurazioni creano difficoltà che nulla hanno a che vedere con l'”invidia sociale”. Non riconoscere problemi come questi è chiudere gli occhi di fronte alla realtà.
Dopo la Grande recessione
Non sono stati presi nella giusta considerazione, se non in forme non liberali, il disagio e il dissenso montante dopo la Grande recessione – in cui sono stati persino premiati banchieri e assicuratori quantomeno imprudenti – e dopo le politiche economiche che hanno prima impedito ai lavoratori di avvantaggiarsi pienamente dei miglioramenti nella produttività e hanno poi lasciato che l’inflazione ne erodesse il potere d’acquisto. Era inevitabile. Il liberalismo è ormai compromesso, troppo legato a un conservatorismo che di fronte alle difficoltà non poteva non trasformarsi in un autoritarismo populista, e quindi ideologico.
Il liberalismo necessario
Il mondo ha però bisogno del liberalismo, nella sua versione democratica (e, in un senso non socialista, progressista). È l’unico sistema che permette di tenere sotto controllo le concentrazioni di potere, politico, economico o sociale, di garantire la coesistenza pacifica di stili di vita differenti, e per questa via – ma senza miracoli e senza armonie prestabilite: è tutto comunque legato agli sforzi e alle responsabilità degli uomini e delle donne – di creare un sistema materialmente e umanamente più prospero e più pacifico.
Il liberalismo possibile
Perché esca dal coma in cui sembra intrappolato, occorre però che il liberalismo si liberi del peso enorme che gli errori di molti liberali – mescolati, come è evidente nel caso di Mises, a valutazioni e idee corrette – lo hanno schiacciato. Il liberalismo non può diventare dottrinario: è figlio di una tensione continua tra realtà e ideale, tra efficienza e libertà. Non ci sono autori liberali – e tantomeno liberali veri e liberali falsi – ma idee liberali e idee non liberali. Non ci sono esiti scontati e automatici, o armonie politiche ed economiche: tutto è comunque rimesso alla responsabilità degli individui. Nulla è tagliato con l’accetta: i confini tra idee e valutazioni sono sempre porosi. Occorre ricominciare daccapo, con un’idea in testa: il sistema sociale, politico ed economico non è liberale. Non lo è oggi, non lo è mai abbastanza.