Emmanuel Macron ha perso le elezioni europee e legislative in Francia. Kamala Harris (e i democratici) le elezioni presidenziali e parlamentari negli Stati Uniti. Entrambi sono stati travolti dallo stesso tema: il costo della vita, il potere d’acquisto, l’inflazione. A nulla è valso il basso tasso di disoccupazione, in entrambe le economie vicino ai minimi storico.
L’inflazione come la peggiore delle tasse
Non è una sorpresa. L’inflazione è la peggiore delle tasse, diceva Milton Friedman. Il monetarismo del liberista americano non è più attuale, e le sue posizioni, che mescolano liberalismo e conservatorismo in un miscuglio, hanno fatto molto male alla cultura politica della libertà. È difficile però dargli torto su questo punto: l’inflazione colpisce i più deboli, i lavoratori dipendenti, i piccoli risparmiatori. Non tutti sono in grado di recuperare quanto hanno perso. Bygones are bygones, dicono gli economisti quando si tratta di inflazione: il passato è passato. Per molti è una tragedia.
La lotta all’inflazione: una battaglia impopolare
Macron e i democratici Usa sono stati sconfitti sul tema dell’inflazione ma non può sfuggire il fatto che l’inflazione non è sotto il controllo dei governi, o dei Parlamenti. È affidato alle banche centrali ma, anche se così non fosse, ben poco i governi potrebbero fare per contrastare l’accelerazione dei prezzi senza passare attraverso misure molto impopolari. Uno dei problemi dell’inflazione – che è, per questo motivo, molto peggio della “peggiore delle tasse” – è che per contrastarla non si hanno molti mezzi se non il raffreddamento dell’economia, attraverso un aumento dei tassi di interesse o una riduzione delle spese pubbliche (i due strumenti, insieme, sono anche più efficaci). La “cura” dell’inflazione è quindi costosissima: passa attraverso un aumento della disoccupazione. In questa ultima fase di inflazione, per ragioni strutturali, si è evitato un hard landing, una recessione conclamata, che è stato comunque uno scenario costantemente temuto; ma il tasso di disoccupazione francese è comunque passato dal 7,1 al 7,4% (contro una media di lungo periodo del 9%) e quelli statunitense dal 3,4% al 4,1% (contro una media di lungo periodo del 5,7 per cento).
La simmetria iniqua della politica monetaria
I cittadini hanno anche imparato che, sul tema dei prezzi, vige una iniqua, e inefficiente, simmetria. I prezzi non calano mai in modo generalizzato, e quindi il potere d’acquisto non aumenta mai se non attraverso un aumento – non facile, e mai universale – delle retribuzioni. Le banche centrali, anche recentemente, hanno contrastato fortemente una tendenza dei prezzi a rallentare e forse a calare, introducendo persino distopici tassi negativi: i forti indebitamenti dei governi e delle imprese (soprattutto in Francia) sconsigliavano una deflazione. La ricerca economica, come mostrano i lavori della Banca dei regolamenti internazionali, indicano però che il raffreddamento e la flessione dei prezzi sono un fenomeno meno grave dell’inflazione. La disinflazione tende ad autostabilizzarsi, l’inflazione tende a esplodere. Quella simmetria di comportamento da parte delle banche centrali nasconde quindi un comportamento profondamente asimmetrico da parte delle istituzioni. Alcuni operatori economici sono più uguali degli altri…
L’illusione del decisionismo
Il tema del potere d’acquisto è un esempio – solo uno dei tanti, e non limitati al campo economico – dell’illusione del decisionismo, costante almeno dal 1915, da quando è stata introdotta l’economia di guerra, che ha animato sia il progetto leninista, sia quello nazista (quello fascista è invece nato liberista, trasformandosi solo in un secondo tempo in un sistema interventista). L’idea è che il potere esecutivo possa dirigere l’economia, fare persino una sua regolazione fine. Questa illusione porta a considerare un ostacolo al raggiungimento del bene comune qualunque cosa sembri limitare, circoscrivere, correggere l’azione del potere esecutivo che, aumentando progressivamente il proprio raggio d’azione ha creato un problema irrisolto, e forse mai affrontato in tutti i suoi aspetti: quello della sua democraticità. Non basta infatti, perché sia democratico, che un governo sia eletto dal popolo: Napoleone III, Hitler, Putin (e molti altri) sono stati investiti in modo diretto o indiretto dal voto popolare (a volte non maggioritario, come è stato nel caso clamoroso di Hitler). Esemplari sono, su questo aspetto, le analisi di Pierre Rosanvallon in Le bon gouvernement.
L’espansione incontrollata del potere esecutivo
Il liberalismo e il costituzionalismo della moderna divisione dei poteri, che prevede anche una Corte suprema o costituzionale, la costruzione europea (Parlamento, Consiglio, Commissione), il diritto internazionale, la creazione in campo economico di agenzie indipendenti, tra cui la banca centrale, sono un tentativo di limitare questo strapotere dell’esecutivo.
Lo Stato di diritto sotto processo
L’illusione del decisionismo è però sempre più forte. Soprattutto quando più gravi sono i problemi di cui si chiede una soluzione. Cavalcata da chi si candida alla gestione del potere esecutivo, porta – verrebbe da dire: naturalmente – alla denuncia dello stato di diritto e dell’indipendenza delle Authority come ostacoli al raggiungimento degli obiettivi. Denuncia lo Stato di diritto il Rassemblement national e ora anche l’intero partito Républicain francese; fa lo stesso Donald Trump, che chiede al Senato di rinunciare al potere di approvare i suoi ministri; fa lo stesso il governo italiano, che da sempre – indipendentemente quindi dalle forze politiche che lo guidano – denuncia la propria debolezza costituzionale, quando in realtà mancano idee strategiche sul ruolo e il futuro del Paese. Difficile, del resto, che il mondo politico non risponda alle pressanti richieste dei cittadini di “fare qualcosa”.
La minaccia globale del populismo
Il risultato sono le forme di populismo, di democrazia illiberale e plebiscitaria. Tutte si illudono che un’unica persona o un piccolo gruppo – e non invece un sistema di regole – possa decidere e attraverso le sue decisioni guidare e determinare il futuro di un paese, malgrado le complessità delle società e delle economie avanzate. È un’illusione che può sopravvivere solo se si immagina una realtà sociale più semplice di quella che realmente è. Se immagina, cioè, che tutto quanto “disturbi” la decisione, sia irreale, apparente, falso perché frutto di disinformazione, di un approccio ideologico o addirittura di complotti; oppure risponda a interessi di parte, più o meno inconfessabili. Il risultato, in termini di decisioni, è evidentemente la soppressione, inevitabilmente autoritaria, di ciò che è diverso, con una perdita della ricchezza complessiva delle società.
Una malattia della politica
L’illusione del decisionismo è allora la malattia di questa lunga fase politica. Uomini o gruppi ristretti in grado di prendere decisioni esecutive non sono davvero realistici. Inseguire questa illusione, che a volte diventa inganno, può portare a danni enormi. Altra cosa è invece la definizione di norme, di leggi, di procedure generali. Si è fatto in passato l’esempio del codice della strada, che lascia a ciascuno la libertà di decidere dove andare. Forse non è un esempio del tutto calzante, perché un popolo può aver bisogno di fissare alcuni obiettivi comuni, per esempio quando occorre definire la propria posizione internazionale. La strada giusta, però, è esattamente questa, e passa per un obiettivo che a molti sembrerà inconcepibile: la riduzione del potere esecutivo, l’ampliamento del potere legislativo.
Macron e Harris: la soluzione assente
Macron e Harris hanno perso, ma non sono parte della soluzione. Rispettosi della divisione dei poteri e di un assetto più equilibrato, sono meno pericolosi dei populisti come Donald Trump, Marine Le Pen e tanti altri. Il sovranismo europeo di Macron, l’interventismo dei democratici sono però delle forme attenuate della stessa malattia, della stessa illusione. Non a caso la loro azione politica alimenta il populismo, invece di ridimensionarlo. Non sono un’alternativa.
Il ritorno al legislativo
La strada è un’altra, forse: occorre un assetto istituzionale diverso, e una cultura politica diversa. Il sistema istituzionale deve rafforzare il potere legislativo e la sua capacità propositiva e di elaborazione politica, mentre il potere esecutivo deve tornare nell’alveo tradizionale della divisione dei poteri, ristabilendo pesi e contrappesi e favorendo una sinergia non necessariamente “unanimistica” delle istituzioni. La cultura politica deve invece rilanciare l’idea che i problemi di un’intera società non sono delegabili e non sono risolvibili a colpi di decisioni, sull’onda di vere o presunte emergenze. La “partecipazione democratica”, formula diventata vuota e retorica, ha un futuro se diventa ricerca coordinata e cooperativa delle soluzioni ai problemi. Per la quale – è vero – occorrono luoghi, forum permanenti o temporanei, di discussione che non siano simbolici e non cadano nell’assemblearismo, ma si configurino come spazi reali di decisione condivisa, capaci di contribuire all’elaborazione di soluzioni pratiche e durature.
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