Un realismo irreale. Si parli di politica come di relazioni internazionali, l’approccio realista – che, in astratto, dovrebbe essere il più promettente – soffre spesso di un curioso paradosso: sfocia in analisi empiricamente inesatte, in genere perché semplicistiche. È il caso anche di uno degli approcci che ha più fatto parlare di sé, in questi giorni in cui si cerca di analizzare l’invasione russa in Ucraina e si cerca di decidere cosa fare: la teoria di John Mearsheimer, che ha in Italia un importante seguace in Alessandro Orsini.
Colpa dell’Occidente?
Mearsheimer, come Orsini, si sono fatti notare – anche se non sono i soli – per aver fatto cadre sull’Occidente – sugli Stati Uniti, sull’Europa, sulla Nato – una parte importante della responsabilità dell’invasione ucraina. In un senso non moralistico – per quanto nella banalizzazione dei talk show, a volte il moralismo è emerso – ma, appunto, realista.
Il realismo aggressivo di Mearsheimer
Non si comprende la posizione di Mearsheimer, però, se non la si cala nel contesto della sua teoria, piuttosto solida, e contenuta nel suo libro The Tragedy of Great Power Politics. La sua impostazione è quella del realismo offensivo, l’idea di base è che le grandi potenze, e solo le grandi potenze, possono garantire a se stesse la sicurezza, che nel mondo delle relazioni internazionali è un bene scarso, solo se sono aggressive, e se il loro obiettivo è quello di evitare la nascita di una potenza regionale egemone.
Una sola eccezione: la Germania
Il modello, secondo Mearsheimer, trova una sola grande eccezione, nella storia: quella della Germania di fine ottocento che, dopo l’unificazione, attese diversi decenni prima di rivelarsi come potenza offensiva. A ben vedere, però, si può pensare che la Germania, in quel periodo, e dopo l’unificazione, consolidò il suo potere interno e si preparò lungamente a svolgere – tragicamente, visti gli effetti – il proprio ruolo sull’arena internazionale. Non diversamente ha fatto la Cina, in questi lunghi anni.
Il caso della Russia
In questo contesto, il comportamento della Russia sembra essere ben spiegato: la necessità di garantire la propria sicurezza minacciata dall’espansione della Nato ha portato Mosca, classicamente si potrebbe dire, ad aggredire il punto debole della minaccia, l’Ucraina. L’idea che la Nato, la Ue e gli Stati Uniti abbiano “costretto” la Russia a comportarsi da grande potenza è aggredire nasce da questa impostazione.
Stati o persone?
Facile capire – anche se non è questo il luogo più adatto per discuterla nei dettagli – il limite di questa teoria, che non va peraltro superficialmente respinta. È una teoria che ipostatizza gli Stati, quasi li personifica attribuendo loro una razionalità – come Hans Morgenthau, che è uno degli autori a cui fa riferimento Mearsheimer – e una volontà. Contrariamente a quanto è stato fatto credere, la complessità di uno Stato, di un Paese, di una nazione, sono elementi di secondo piano: quello che conta è la reazione quasi automatica della Grande potenza a quella che “percepisce” – o meglio: le sue élites percepiscono: è evidentemente una teoria elitaria – come una minaccia alla sicurezza nazionale.
Da Trasimaco a Carl Schmitt
Il suo realismo, inoltre, è altrettanto irreale di quello di tante teorie “realiste”, le quali non sono sempre empiricamente fondate ma piuttosto si definiscono tali perché si oppongono a teorie idealiste – nel senso comune della parola – o moraliste. Semplificando: adottano uno o più elementi “sgradevoli” della natura umana, tra i tanti e diversi, e lo pongono al centro dell’analisi: dal Trasimaco della Repubblica di Platone («la giustizia è la volontà dei più forti»), all’homo homini lupus di Thomas Hobbes, alla nemico disumanizzato di Carl Schmitt, il realismo disegna una realtà spettrale, e molto semplicistica.
Dall’analisi alla scelta politica
Non è questo, però, il vero problema dell’approccio di Mearsheimer (e di Orsini) alla vicenda dell’Ucraina. È piuttosto quello che emerge quando si usa lo stesso modello adottato per l’analisi della situazione – nella quale può anche risultare utile – per decidere “il da farsi”. Quando si passa dall’essere al dover essere. È qui che l’approccio, antistorico, riduzionistico, realista mostra tutti i suoi limiti. Perché sembra voler dire – e a volte dice proprio così – che bisogna accettare la realtà così com’è. Bisogna non solo accettare il fatto, banalmente reale, che la Russia abbia invaso l’Ucraina, ma anche che “debba” conquistarla.
Restituire sicurezza alla Russia
Bisognerebbe, secondo questo approccio, ridare alla Russia la sua sensazione di sicurezza. L’Ucraina deve arrendersi – la teoria non dà spazio alla volontà dei suoi abitanti, né prima né dopo l’invasione – gli altri paesi devono accettare l’invasione. La Russia combatte per la sua sicurezza. Punto. Del resto – si ripete – non fa niente di diverso da quello che hanno fatto altre grandi potenze, gli Stati Uniti innanzitutto. Le ultime dichiarazioni di Orsini sulla Germania Nazista, che tanto scandalo hanno generato, rispondono alla stessa logica.
Il pericolo della Nato
Siamo sicuri che la conclusione sia così razionale? Allarghiamo il campo. È davvero l’Ucraina – un’Ucraina evidentemente legata alla Nato e all’Unione europea – la fonte principale dell’insicurezza russa? È lì il problema? La Nato non è già ai confini della Russia, in Estonia, Lettonia e Lituania, paesi non facilmente difendibili (ma l’adesione dell’Ucraina non avrebbe cambiato le cose). La reazione di Svezia e Finlandia, peraltro già orientate ad avvicinarsi alla Nato, non era prevedibile?
Nato o Cina?
Soprattutto: e la Cina? È una grande potenza nucleare, uno stato ormai ricco – anche se la società lo è molto meno – ha assunto un orientamento decisamente più aggressivo, negli ultimi anni, dopo essersi consolidata all’interno. Soprattutto, condivide con la Russia un confine ben più lungo di quello tra Russia e Unione europea o Russia e Nato, e per giunta molto poroso: le migrazioni dalla Cina verso il nord sono ampie e, come è avvenuto in altri paesi asiatici, questi gruppi diventano avamposti della madre patria.
Rapporti tesi ai confini
I rapporti tra Pechino e Mosca oggi sono buoni, ma in passato non è stato sempre così. Tra Russia e Cina sono scoppiate diverse guerre di confine: nel XVIII secolo, poi nel 1929 e infine nel 1969, quando le ostilità culminarono nella battaglia dell’isola di Damansky (o Zhenbao). A quell’epoca, erano sul confine 375mila soldati russi, con 1.200 aerei e 120 missili a medio raggio, insieme a 1.500.000 soldati cinesi, e Pechino aveva compiuto il primo test nucleare cinque anni prima non lontanissimo dal confine settentrionale.
La scommessa di Macron
La teoria di Mearsheimer farebbe pensare che è su questo confine che occorre attendersi un conflitto. Nella regione insiste un’altra grande potenza, l’India, e gli Stati Uniti hanno una stretta rete di alleanze. L’insistenza con cui il presidente francese Emmanuel Macron ha tentato di far avvicinare Mosca a Bruxelles, guardando – senza infingimenti – al dopo-Putin, non era certo legato a una qualsiasi forma di dipendenza verso le importazioni russe. Era, piuttosto, l’idea che – nel medio periodo, almeno – la Russia dovrà temere la Cina molto di più dell’Europa.
Il punto debole
Perché non è ancora così? Perchè Putin rischia davvero di apparire e di diventare un vassallo di Pechino? Probabilmente perché – esattamente come capitò a Hitler negli anni 40 – a guidarlo non è stata tanto l’idea di un’Ucraina fonte di insicurezza – Pechino lo è molto di più – quanto l’idea di un’Ucraina naturalmente molto più debole della Cina, anche perché non sostenuta da un’Europa divisa – gli autocrati la vedono sempre così, non capendo bene di cosa si tratti – e di una Nato, come disse Macron, «in stato di morte cerebrale».
Una scelta più ampia
Il modo migliore di rispondere a Mosca qual’è, allora? Accettare l’invasione – malgrado il no degli ucraini, trasformati in strumenti delle grandi potenze – per ridare alla Russia la sua percezione di sicurezza, o rafforzare l’Ucraina, per evitare che la grande potenza euroasiatica avverta la tentazione di rafforzarsi colpendo i vicini più deboli. Da questa prospettiva, la risposta di Mearsheimer non appare più così razionale.
L’Ucraina cattivo esempio
Senza contare il fatto che possono essere altre, e davvero più complesse, le ragioni. Senza volerla idealizzare – non sarebbe possibile – l’Ucraina guarda sempre di più all’Europa, molto di più della Russia: nella politica, nei costumi, nell’economia. È più aperta, e… parla russo. Lo stesso Zelensky è russofono. Non è militare, allora, la sfida ucraina a Mosca: è tutta politica. Putin vuole una Russia che vada in un’altra direzione, quella dell’autocrazia plebiscitaria, illiberale, e un esempio diverso così vicino, anche linguisticamente, non era sopportabile. La minaccia non veniva della Nato, ma dagli ucraini. Oggi, non a caso, duramente puniti.