L’indignazione è stata immediata. Persino bipartisan. Le parole di Barbara Palombelli sui femminicidi hanno colpito subito anche chi è attento alla libertà di espressione e alla libertà del giornalismo. Qualcosa di sbagliato – emergeva con grande evidenza – c’era in quelle parole, qualcosa che occorreva mettere in chiaro, che doveva essere esplicitata e resa razionale, uscendo dall’ambito delle mere emozioni.
“Parliamo – ha detto la giornalista – della rabbia tra marito e moglie. Come sapete negli ultimi sette giorni ci sono stati sette delitti, sette donne uccise, presumibilmente da sette uomini. A volte però è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati oppure c’è stato anche un comportamento esasperante, aggressivo anche dall’altra parte? È una domanda, dobbiamo farcela per forza, perché dobbiamo in questa sede soprattutto, in un tribunale, esaminare tutte le ipotesi”.
In molti invocano ora un intervento del Consiglio di disciplina territoriale e hanno chiesto all’Ordine dei giornalisti, dove la giornalista è iscritta, di avviare una procedura. La vicenda ha sicuramente degli aspetti deontologici che vale la pena di esaminare, anche perché i giornalisti abbiano – qualunque sia la decisione finale – delle linee guida sul tema dei femminicidi, sul quale è giustamente scoppiato l’allarme sociale.
È però anche importante capire che le affermazioni di Palombelli hanno toccato davvero un punto nevralgico, che va al di là del tema, pur tragicamente rilevante, dei femminicidi; e mostrare perché costituiscano in ogni caso anche un errore dal punto di vista della buona tecnica giornalistica.
Esiste un principio fondamentale, nella civiltà occidentale: la distinzione tra carnefice e vittima, che è una distinzione di fatto, non di valore, è netta. In ogni caso in cui questi due concetti correlati sono rilevanti, come nei femminicidi. Qualcunque discorso, qualunque analisi si voglia proporre su una determinata vicenda, non può rendere confusa questa linea di demarcazione; e il rispetto della vittima – passando dall’essere al non essere – impone di parlarne, sempre, con estrema delicatezza.
I casi estremi, proprio per la loro radicalità, possono aiutare a capire. Ci sono innumerevoli analisi storiche su quanto avvenne in Germania prima e dopo l’avvento del nazismo, sulla posizione sociale degli ebrei nel paese, e fino alla “Soluzione finale”. Nessuno storico serio si è mai spinto a dire: “Sì, ma gli ebrei…”: il discorso, da discorso storico, si sarebbe immediatamente trasformato in un discorso retorico, politico, e di dubbio valore. Avrebbe reso confusa, sfocata, quella linea di demarcazione.
Ancora. Abu Ghraib, la prigione americana in Irak. Cambia uno iota, nel significato delle torture inflitte dai soldati americani ai prigionieri, il fatto che questi fossero probabilmente terroristi, o anche l’ipotesi – puramente fantasiosa in questo contesto – che questi li avessero provocati? Per nulla: quelle torture restano torture, anche in quel caso la distinzione tra vittime e carnefici sono chiare, e solo un discorso politico può provare a confondere le acque.
Cosa è accaduto nel caso Palombelli? Cosa ha spinto la giornalista a rendere meno netta nel caso dei femminicidi la distinzione tra carnefice e vittima? Il fatto che la vittima è donna? Sarebbe molto grave, e il dubbio che sia così, che un vecchio e odioso pregiudizio abbia preso il sopravvento, è davvero forte.
Un pregiudizio da superare, tenuto conto di cosa è capace: di mettere tra parentesi quell’esigenza di rispettare le vittime e condannare i carnefici, che è un elemento centrale della cultura occidentale. Nel mondo antico la vittima era anche colpevole, anche se non mancano – in Edipo Re per esempio: “lo si caccia, lo si caccia, con estrema dolcezza”, recita la versione di Jean Cocteau, musicata nella traduzione latina da Igor Stravinski – episodi in cui questa identificazione non viene rispettata, non fino in fondo almeno.
La cultura ebrea e quella cristiana hanno cambiato tutto questo: Giobbe, per primo, protesta contro le “punizioni divine” che lo hanno colpito in modo così duro e rivendica la sua innocenza. I saggi del villaggio cercano di convincerlo: qualcosa deve pur aver fatto. In uno dei brani più belli della letteratura mondiale, Yahveh stesso scende allora a parlare con Giobbe e gli chiede: “Dov’eri tu mentre creavo il mondo?”, un modo per dire: “Come puoi, tu essere finito, capire l’infinità dell’Essere?”. Di fronte a Giobbe c’è ora tutto il mistero della divinità e della volontà divina, ma neanche Dio può dirgli, perché non è vero: Sei colpevole. Il nesso vittima-colpevole è tagliato.
Il passaggio successivo è evidentemente la morte di Gesù. Il nazareno è condannato a morte, a furor di popolo. È il classico caprio espiatorio, una figura esecrata dappertutto, prima di allora: i lavori dell’antropologo René Girard lo hanno mostrato con grande chiarezza (e lo hanno segnato al punto che lui si è convertito al cattolicesimo). Invece, Gesù diventa il figlio di Dio – oppure, se si ha il dono della fede: si scopre che è il figlio di Dio (e forse lo scopre lui stesso, altrimenti il suo sacrificio diventerebbe nulla rispetto a quello di ogni uomo e di ogni donna di fronte al mistero della morte). Il capro espriatorio non è più sacer: è divino.
In pieno Illuminismo, quando la cultura occidentale cerca di liberarsi del peso di una religione che aveva dimenticato le sue origini, Cesare Beccaria fa il passo successivo: prova a liberare anche i detenuti colpevoli da una pena che fosse umiliante, disumana. Chi cerca e amministra giustizia non può diventare carnefice, neanche con i carnefici. La trasformazione del carnefice in vittima, come quello della vittima in carnefice, è “vietata”.
Le parole di Barbara Palombelli hanno allora toccato un punto nevralgico della nostra cultura. Facile l’obiezione: tutto questo significa allora che non si può parlare delle vittime? che non si possono esaminare i loro comportamenti? che non si può per esempio – nel caso dei femminicidi – capire come si sia evoluta la dinamica familiare fino a portare quell’uomo – e non, genericamente, “un uomo”, perché evidentemente non tutti diventano carnefici, nelle stesse identiche circostanze – a compiere una scelta così barbara?
No di certo. Anzi, potrebbe essere persino utile, se un’analisi di questo tipo fornisse alle donne gli strumenti per capire i sintomi, i segni premonitori di scelte così barbare. Nessuno ha impedito agli storici di capire perché gli ebrei fossero così odiati da una parte dei tedeschi, ma nessuno ha attribuito loro la colpa. Nessuno impedisce di cercare perché le vittime di Abu Ghraib (o anche di Guantanamo) fossero imprigionate (e anche perché fossero torturate). Anzi. Questo tipo di ricerca non toglie il fatto, però che, in quell’episodio, quegli arabi, anche se terroristi, siano state vittime.
Dov’è allora l’errore di Barbara Palombelli? Perché ha turbato tutti e ha generato un ampia condanna? Perché la giornalista ha invertito il procedimento corretto. Un giornalista, nella sua attività quotidiana di ricerca delle notizie, prima cerca di capire, se inciampa su qualche indizio, se per esempio c’era qualcosa nel rapporto di coppia che possa completare il quadro – e non è detto che ci sia – poi valuta anche con l’aiuto degli esperti se, psicologicamente e giornalisticamente, quanto ha trovato è rilevante, e infine – con estrema delicatezza nei confronti della vittima, senza che la notizia si trasformi in una condanna morale, in un “se l’è cercata” – può raccontarla.
L’errore – errore anche giornalistico – di Barbara Palombelli è quello di aver invertito la procedura. Ha presupposto, dichiarandolo, non semplicemente che la dinamica di coppia potesse essere rilevante, fatto che già richiederebbe una verifica puntuale; ma addirittura che ci possano essere state delle provocazioni specifiche, e in tutti i casi di femminicidio. Occorre chiedersi, ha detto, se “c’è stato anche un comportamento esasperante, aggressivo anche dall’altra parte”.
Su questo punto, peraltro, viene incontro il codice penale: le provocazioni giuridicamente rilevanti – è queste che la giornalista sembra aver invocato: ha detto di essere in un “tribunale”, anche se la sua trasmissione è solo una procedura arbitrale su temi di diritto civile – sono quelle costituite da un “atto ingiusto”, nel senso di “contrarie la legge” e non nel senso di “moralmente ingiusto”, che abbia determinato uno “stato d’ira”. Non sembra che i femminicidi possano rientrare in questa fattispecie (anche se qualche avvocato ha cercato di difendere la giornalista invocando questa norma).
È chiaro che nell’interminabile dialogo con se stessi, il giornalista può e deve sempre chiedersi (in qualunque occasione, ovviamente): “Chissà se c’è altro da scoprire”. È la spinta a cercare aspetti nuovi di una vicenda. Di questi aspetti nuovi può parlarne, però, solo dopo che davvero ha trovato qualcosa. Farlo prima, o addirittura dare corpo, come in questo caso, a un sospetto, a un pregiudizio peraltro molto diffuso, è invece un errore, un brutto errore; e forse anche qualcosa di più.