“Qual è il posto migliore per realizzare il sogno americano?”. È una domanda alla quale, negli Usa, si dà spesso una risposta provocatoria. “In Svezia”, si dice generalmente (o anche “in Danimarca”, o più vagamente, “nei paesi scandinavi”).
Curioso, visto che il partito socialdemocratico svedese (S/Sap) ha realizzato – in modo quasi consapevole – quello che Antonio Gramsci proponeva con la formula dell’”egemonia”, ovviamente socialista: ha dominato la politica del paese dal 1917, guidando la maggior parte dei governi.
La destra è riuscita a formare una maggioranza, di coalizione, opposta a un S/Sap sempre in maggioranza relativa, per la prima volta nel 1976 (e successivamente nel 1979, nel 1991, nel 2006, e nel 2010). L’ultima volta in cui un singolo partito ha superato, in termini di voti, i socialisti è stato nel 1914. La partecipazione al voto è sempre stata altissima.
La Svezia ha però sempre avuto un mercato vivace. L’indice della Libertà economica, elaborato dalla Heritage Foundation e dal Wall Street Journal, le ha concesso, nel 2019, la quindicesima posizione (gli Usa erano al 18° posto, l’Italia al 79°), malgrado un livello di tassazione molto alto e quindi penalizzante, in base a quell’approccio.
Nel 2020 il paese era 7° per tutela della proprietà, 10° per efficienza del sistema giudiziario, sesto per integrità del governo, 11° per libertà delle imprese, 14° per libertà degli investimenti, penultimo per carico fiscale (e molto indietro per la libertà del lavoro, intesa come libertà di assumeree licenziare). La Svezia è anche decima nella classifica Doing business della Banca mondiale, che misura la facilità di aprire nuove attività economiche.
Il socialismo svedese è però diverso. Completamente diverso da quello che conosciamo. Fin dagli anni 10 del 900, Nils Karleby – già erede di una tradizione fortemente revisionistica – interpretò il socialismo come un completamento del liberalismo. Accettò l’idea liberale del libero cittadino ma chiese che diventasse patrimonio di tutti. Abbandonò l’economia marxiana, conservando solo la sociologia, quell’analisi delle classi che Marx aveva del resto assorbito per sua stessa ammissione dagli storici “borghesi”; e adottò l’economia neoclassica, marginalista, che diventerà poi la base della moderna scienza economica.
Karleby rinunciò quindi alla pianificazione economica, che considerava una forma di mercantilismo e le nazionalizzazioni e adottò in pieno il mercato. L’obiettivo era sempreeè comunque il socialismo, la proprietà sociale e non semplicemente individuale, ma la sua proposta è sicuramente una delle forme – dimenticate perché eccentriche rispetto al socialismo statalista – di socialismo di mercato. I mercati vanno trasformati, ma la politica – spiega Karleby – deve soprattutto fare in modo che i mercati funzionino meglio. Soprattutto, evidentemente, il mercato del lavoro.
La vera svolta avvenne però negli anni ’50, quando l’ufficio studi della Landesorganizationen (LO) i Sverige, la confederazione dei sindacati che rappresentava circa il 70% dei lavoratori, iniziò a elaborare il modello Rehn-Meidner, dal nome dei due economisti che lentamente lo misero a punto, Gösta Rehn e Rudolf Meidner. Non si può dire che il modello, nato in sede sindacale e non governativo, sia stato adottato in pieno, ma è certo che ha avuto un influenza considerevole sulla politica economica svedese.
L’obiettivo era chiaro; evitare l’intrusione dello stato nel mercato del lavoro. Il sindacato aveva quindi bisogno di andare al di là della semplice rappresentanza corporativa e di proporre un modello che rendesse compatibili gli interessi generali con quelli dei lavoratori. “In uno stato democratico – spiegò un rapporto del 1941, che segnò a lungo la vita del sindacato – la classe lavoratrice non può separare il suo destino da quello della nazione[:…] è una parte significativa della società contemporanea. I lavoratori devono accettare le loro responsabilità, ma con mezzi economici e politici adeguati devono anche sottolineare con energia e sostenere con forza le loro richieste e i loro diritti”.
Come funzioni un’economia moderna era comunque loro già chiaro: “Il movimento sindacale – spiega il documento – ha un interesse positivo nella stabilità e nella competitività dell’industria”. Le innovazioni non spaventavano più, inoltre: per la LO lo sviluppo tecnologico non danneggia l’occupazione, almeno nel lungo periodo, e “aumenta le possibiltà, per le persone, di vivere una vita migliore, più ricca, più libera”.
Il modello Rehn-Meidner nasce però nel dopoguerra, in una situazione economica molto particolare. La ripresa della Svezia è molto inflazionistica. Per i lavoratori e i sindacati è un problema, anche perché nel 1949 il Governo impone il congelamento dei salari, che ai sindacati non piace: vengono congelate anche le disparità che la LO vorrebbe colmare e non può. “Odiate l’inflazione!” è allora la parola d’ordine di Rehn; perché riduce i salari reali, e perché abbassa l’efficienza produttiva, che sola può permettere retribuzioni più alte.
L’obiettivo sindacale di una forma solidaristica di salario, che riducesse disparità ingiustificate, spinse Rehn e Meidner a rifiutare ogni forma di sostegno keynesiano della domanda a favore di politiche attive del lavoro che evitassero di dover scegliere un trade off tra disoccupazione e inflazione (che spostasse quindi la curva di Phillips) .
I due economisti chiesero, in funzione antinflazionistica, un grande rigore nei conti pubblici: non semplicemente bilanci in pareggio, ma addirittura in surplus. L’idea, sbagliata, era che i deficit gonfiassero gli utili aziendali e questi generassero inflazione attraverso salari spinti a livelli non coerenti con la produttività; la soluzione prospettata, però, raffreddava la domanda e permetteva di cogliere in ogni modo l’obiettivo. In una seconda fase Rehn e Meidner chiesero anche una politica monetaria rigorosa.
I surplus pubblici erano anche un obiettivo intermedio strategico, uno strumento per accumulare il capitale pubblico, in chiave socialista, anche se la Lo voleva evitare sia la pianificazione sovietica, sia il keynesismo, sia il corporativismo fascista. Rehn e Meidner chiesero inoltre che le spese pubbliche fossero finanziate attraverso le imposte indirette: i due economisti sapevano bene che sono un tipo di tassazione regressiva, che colpisce i più poveri più che proporzionalmente, ma temevano effetti distorsivi maggiori, sui profitti soprattutto, dalle imposte dirette. Chiesero piuttosto che gli effetti negativi delle imposte indirette fossero contenuti attraverso la redistribuzione dei redditi.
Il governo aveva inoltre il compito di creare le condizioni – e solo le condizioni – per una politica salariale non inflazionistica, devoluta ai sindacati. Il principio, qui, era semplice: i salari, almeno nel lungo periodo, dovevano muoversi in linea con la produttività, che quindi occorreva far crescere, anche per rendere agevole la redistribuzione. Occorreva anche ridurre la quota di profitti (che effettivamente scese tra il ’55 e il ’72 sia pure per motivi non del tutto legati al modello Rehn-Meidner), in modo che diventasse compatibile con la piena occupazione. Si proponeva quindi una forma di moderazione salariale ottenuta però anche riducendo la concorrenza tra lavoratori. Le differenze salariali erano ritenute legittime, se basate su competenze, training, sforzo lavorativo, senza dare necessariamente, in via di principio, una maggior enfasi ai lavoratori meno fortunati.
Il principio era “paga uguale per lavoro uguale”: una retribuzione solidaristica quindi. Nel tempo, però, una certa enfasi sull’egualitarismo cambiò: nel primo dopoguerra c’erano molte disparità da colmare, poi furono annullate. Il sindacato iniziò allora a proporre quindi più politiche attive, in modo da far incontrare domanda e offerta e ridurre i costi, non solo economici, della disoccupazione. per lavoratori e imprenditori. Grande attenzione fu rivolta all’istruzione, si promosse la liberalizzazione del commercio internazionale, e lo sviluppo della concorrenza.
L’enfasi sulla produttività ha spinto a lungo la LO a rifiutare contrattazioni collettive troppo ampie (richieste invece dalle imprese e dalla società, con successo). Il sindacato era anche consapevole che la moderazione salariale imponeva comunque retribuzioni troppo alte alle imprese “marginali”; più deboli (come avveniva nel tessile e nell’abbigliamento); ma le considerava un incentivo alla modernizzazione. Era ritenuto contrario agli interessi di lungo periodo dei lavoratori tenere in piedi aziende ineffficienti, e per questo motivo la LO era contraria anche ai sussidi statali alle imprese (considerati peraltro inflazionistici) ma non all’occupazione.
Meidner non esitò, negli anni 80, facendo un bilancio del loro modello, a definirloo come “quasi-liberale”. Non potrebbe essere applicato oggi – sottovaluta, soprattutto, il ruolo dei profitti nel determinare gli investimenti – ma le sue linee guida sono molto eccentriche rispetto al mondo socialista. Moderazione salariale, in termini di compatibilità con la produttività; enfasi sulla crescita per rendere possibili l’aumento dei salari reali e la redistribuzione, una politica fiscale sufficientemente rigorosa, lotta all’inflazione rendono davvero il modello unico nella storia del socialismo. Molto consapevole, in ogni caso, del funzionamento di un’economia di mercato, dei vincoli che pone, e delle responsabilità che chiede nel momento in cui si rinuncia al corporativismo fascista (che dà allo Stato il compito di raggiungere una sintesi tra le diverse istanze sociali).
La Spd adottò un sistema simile, e infatti studiò con attenzione il modello Rehn-Meidner; ma i socialisti tedeschi, dopo Bad Godesberg e il rifiuto del marxismo, colorarono di rosa l’economia sociale di mercato e l’ordoliberalismo, il tipico neoliberalismo tedesco di impostazione più conservatrice.
Non tutto, del modello Rehn-Meidner fu accettato dal governo svedese, che fece fatica per esempio ad abbandonare una politica fiscale anticiclica a favore di un forte, ma finalizzato, rigore fiscale (anche se fu più disciplinato rispetto ai primi anni del dopoguerra). In ogni caso, nel 1955, il primo ministro Tage Erlader adottò il modello – in una riunione di partito, come raccontò anni dopo – che fu seguito in modo piuttosto coerente fino all’inizio degli anni 70. Il ministro delle Finanze Gunnar Sträng non affrontò anzi le due recessioni del ’66-68 e ’70-72, con le classiche politiche keynesiane, considerate inflazionistiche, ma con politiche del lavoro attive e selettive. Il Paese, a differenza di Gran Bretagna, Finlandia e Danimarca, rinunciò anche a svalutare la corona a metà degli anni 60.
La fine arrivò negli anni ’70 e fu triste. L’insediamento, nel 1976, di un governo di centro destra portò ad annacquare molto il modello, già in tensione nei due anni precedenti. La Svezia svalutò la corona nel ’76 e due volte nel ’77, e aumentò i deficit pubblici, in chiave keynesiana, introducendo forti sussidi per le grandi imprese del settore minerario, siderurgico, e cantieristico, particolarmente colpiti dalla concorrenza asiatica. Le politiche attive del lavoro, però, non furono abbandonate, anche se divennero più orientate alla domanda. Il modello andò ben presto in crisi: in una sorta di reazione parossistica i salari salirono troppo, i profitti scesero, il paese perse competitività e quote di mercato globale.
Non fu forse estranea alla fine del modello l’influenza di culture economiche “non svedesi”: i consigli dell’Ocse, l’arrivo, tra gli economisti del partito socialdemocratico, di studiosi attenti a considerazioni supply-side, così come alla preoccupazione di un effetto di crowding-out (lo spazzar via) degli investimenti privati da parte di quelli pubblici. L’influenza della LO iniziò inoltre a calare, mentre aumentò quella dei sindacati dei servizi e aumentò la concorrenza tra le diverse organizzazioni. I diversi governi non socialisti hanno poi abbandonato il modello, anche se andando più in una direzione conservatrice che in una liberale.