La Cina esporta di tutto. Anche l’inflazione. L’aumento dei prezzi ha raggiunto ormai nel gigante asiatico il 4,9% annuo (a gennaio), sulla spinta di diversi fattori, tra i quali sembra fondamentale il nesso Fed-yuan, ossia l’interazione tra la politica monetaria ultraespansiva di Washington e il cambio fisso della valuta di Pechino. Si è spesso detto che l’inflazione cinese “torna indietro” insieme ai suoi prodotti. Soprattutto negli Usa, che importano una quantità enorme di prodotti.
Le articolate statistiche americane permettono di capire quanto questo sia vero:
i prezzi all’importazione sono aumentati dell’1,5% nel solo mese di gennaio (5,3% annuo), con un forte contributo non solo dei prezzi alimentari e petroliferi, ma anche di quelli di tutti gli altri beni: l’indice “core” è salito del 3,2 annuo%, in forte accelerazione dal 2,6% di dicembre. Tutti i paesi – tranne Germania e Francia – hanno contributo al rialzo, e il grafico elaborato dalla JPMorgan permette di cogliere quanto sia stato importante il contributo della Cina.
Il meccanismo di trasmissione dalle frontiere ai supermercati e i negozi americani è lento e imperfetto: l’inflazione importata può metterci un anno e mezzo prima di dispiegare tutti gli effetti. James Hamilton, l’economista della California University che ha studiato le strette relazioni tra i rialzi del petrolio e le crisi (ricordate il greggio a 147 dollari nel luglio 2008?), crede che questo sia il principale fattore che alimenta oggi l’inflazione americana. Un fenomeno non immediatamente controllabile dalla politica economica.
La pressione complessiva è tale – notano gli economisti di JPMorgan – che l’inflazione mondiale complessiva ha raggiunto a gennaio il 3%, 0,5 punti in più di giugno 2010. Il rialzo delle materie prime, spinte ora anche da fattori geopolitici, dovrebbe accelerare dall’attuale +20% annuo al 75% entro metà 2011. «È quindi ragionevole anticipare – concludono – che l’aumento dei prezzi al consumo possa superare il 3,5% a metà anno, il massimo dal 2008».