Il tema, e la paura, sono tornati d’attualità. Il QE2, la seconda fase dell’allentamento quantitativo varato dalla Federal reserve, ha alimentato di nuovo il timore che si possano creare bolle finanziarie. L’aumento dei prezzi delle obbligazioni acquistate dalla banca centrale di Washington, il parallelo e voluto rialzo di Wall Street – l’S&P 500 è salito del 42% dal minimo del giugno 2009 al 5 novembre 2010 – e la flessione del dollaro sono tutti effetti della politica monetaria espansiva. Se falliranno nello stimolare a loro volta l’attività economica “reale”, la situazione potrebbe degenerare in un’inflazione finanziaria. Senza contare che le ripercussioni possono manifestarsi anche fuori degli Stati Uniti, in quella informale “area del dollaro” che comprende molti paesi emergenti. La Cina, alle prese, con i prezzi immobiliari, ne sa qualcosa.
Torna dunque d’attualità anche il dibattito sui possibili rimedi. La politica monetaria è sempre più chiamata a garantire anche la stabilità finanziaria, oltre a quella dei prezzi, ma non è così semplice. Gli economisti stanno facendo passi avanti nella ricerca dei criteri per identificare le bolle, ma gli strumenti oggi a disposizione per affrontarle sembrano brutali. Si dovrebbero alzare i tassi, si dice, come del resto ha fatto a volte la Norges Bank di Oslo, e anche la Bce, nel luglio 2008. Il rischio, però, è di bloccare la crescita nel momento sbagliato. Se poi il rialzo fosse deciso troppo tardi, la bolla potrebbe esplodere, invece che sgonfiarsi, scatenando una crisi. Qualcuno poi forse ricorda, negli anni di Eddie George, che la Bank of England (BoE) alzò i tassi per contrastare l’aumento dei prezzi immobiliari proprio nel momento in cui gli acquirenti avevano capito che il rialzo non poteva proseguire. L’effetto combinato delle decisioni del mercato e quelle della BoE fu una recessione.
Torna allora di attualità la soluzione proposta recentemente da Roger Farmer, docente alla University of California, un keynesiano molto atipico, molto scettico per esempio sulla politica fiscale. Farmer pensa che la Federal reserve (e possibilmente tutte le banche centrali del mondo) debba adottare un nuovo obiettivo e un nuovo strumento, da affiancare al tasso di inflazione – un target non dichiarato – e alla leva dei tassi. Dovrebbe fissare un corridoio di crescita, con un tetto e un pavimento, per un indice piuttosto ampio – «più ampio dello Standard & Poor’s» – della borsa Usa. Per mantenere il mercato azionario entro i limiti la banca centrale dovrebbe quindi acquistare e vendere titoli da collocare in un fondo che replichi quell’indice, elaborato in modo che ciascuna società abbia un peso corrispondente al suo valore di mercato (e quindi molto variabile).
Il sistema è costruito in modo da evitare al minimo le distorsioni e i costi. Cosa possibile, secondo Farmer, anche perché «il solo fatto che la Fed possa intervenire, può significare che non dovrà farlo». Un po’ come avviene sul mercato dei cambi, dove la sola possibilità che una banca centrale possa acquistare o vendere valuta, a volte, riesce a evitare che si vada fuori strada. Scatterebbe insomma una delle “profezie che si autoavverano” che l’economista ha approfondito nei suoi studi. Il sistema potrebbe permettere anche alle banche “troppo grandi” di fallire senza trascinare con sé l’intero sistema creditizio. Gli investitori, sapendo che il mercato viene sostenuto, potrebbero infatti mantenere la fiducia nelle banche più solide.
Il sistema è elegante anche se – pur ammettendo un congelamento dei diritti di voto per il fondo – affida alle banche centrali enormi poteri. «Non vedo alternative», ha spiegato però Farmer in una conferenza al Carnegie Council. Una cosa non può comunque essere negata: il mercato finanziario è disordinato, instabile. È – come spiega da tempo la Banca dei Regolamenti internazionali – prociclico, esaspera le tendenze invece di correggerle e farle convergere verso un equilibrio, ed è a volte vittima di effetti-gregge che non si possono facilmente disperdere. Tutto questo chiede una risposta.