Debiti, debiti. Non si parla d’altro, giustamente. Al centro dell’attenzione sono quelli pubblici; ma qualche mese fa si parlava di quelli privati, dei subprime in America, dei mutui spagnoli e irlandesi, o di quelli in valuta estera dell’Europa dell’Est. Tutti eccessivi, tutti potenzialmente insostenibili. Anche perché spesso sono proprio gli stessi, che da un debitore (in genere privato) si sono spostati a un altro (in genere pubblico) nella speranza di trovare spalle più larghe su cui poggiare.
Senza, è impossibile vivere: i debiti permettono di utilizzare oggi il risparmio futuro, in modo – si spera – talmente produttivo da permettere non solo di restituirlo ma anche di ripagare il rischio. Tutti sanno però che, privati o pubblici che siano, oltre un certo livello creano danni. Sono «una spada a due lame». Qual è la soglia di pericolo? La risposta è stata data, al Simposio annuale di Jackson Hole organizzato dalla Federal reserve di Kansas City, da un team di economisti della Banca dei regolamenti internazionali guidati da Stephan Checchetti. Il lavoro («The Real Effect of Debt», «L’effetto reale del debito») ha individuato le soglie oltre le quali il debito, da fattore di crescita, si trasforma in un freno.
Subito i numeri: i calcoli econometrici sui dati dei paesi Ocse nel periodo 1980-2010 mostrano che i debiti pubblici diventano un peso all’85% del Pil (anche se sarebbe bene in tempi normali – nota la ricerca – mantenersi sotto quel livello, per avere un po’ di spazio di manovra nelle improvvise situazioni di crisi); quelli delle aziende non finanziarie al 90%, e quelli delle famiglie all’85%.
Gli effetti sono molto diversi: per il debito pubblico un aumento di dieci punti di Pil sopra la soglia frena la crescita di 0,10-0,15 punti percentuali, per le aziende di circa la metà, mentre è praticamente impossibile stimare l’impatto per le famiglie.
Se si osservano i dati italiani, si nota che non è solo il governo a "sforare", con il suo 129%, ma anche le aziende, con un 128% che non è certo il 155% della Francia e non è lontano dal 126% britannico ma è distante dal 100% tedesco e soprattutto dal 76% americano. Segno che va forse ripensato il forte ricorso alle banche (il 75% del totale, contro il 25% circa Usa) come fonte di finanziamento prioritario in Europa.
Dove l’Italia si presenta "virtuosa" è nel debito delle famiglie, che raggiunge appena il 53% del Pil, il livello più basso di tutti i paesi Ocse. È un bene, tenuto conto del parallelo comportamento di governo e imprese: il debito totale si ferma al 310% del Pil, un livello non certo basso, ma vicino alla media. Si potrebbe però argomentare che stiamo forse sprecando qualche opportunità di crescere, o anche solo quella di mantenere il livello dei consumi di fronte a variazioni non temporanee del reddito.
La ricerca è importante anche per le implicazioni politiche. Ridurre il debito pubblico è fondamentale, ma «potrebbe non essere abbastanza, soprattutto se è a un livello tanto alto da danneggiare la crescita». Senza contare che l’invecchiamento della popolazione tende ad aumentare le spese (per pensioni, assistenza e sanità) e a ridurre le entrate.
A poter salvare la crescita dei paesi ricchi, allora, restano solo i paesi emergenti: il flusso di immigrati in cerca di lavoro e di risparmi in cerca di mercati finanziari avanzati, insieme al commercio internazionale di beni prodotti a prezzi più bassi, potranno aiutarci. I bilanci pubblici devono però essere risanati: «Più a lungo si aspetta, più alto sarà l’impatto negativo sulla crescita e più difficile sarà l’aggiustamento». E non bisogna dimenticare i debiti privati: aumentare il costo del credito e rendere i fondi meno disponibili potrebbe non essere sufficiente: forse bisognerebbe «ridurre i sussidi diretti e i trattamenti fiscali preferenziali». L’unica via d’uscita, conclude lo studio, è aumentare i risparmi.