Il gioco sembra semplice; e tanti italiani ne hanno un po’ nostalgia. La moneta si svaluta, le esportazioni salgono. Non subito ma entro qualche mese salgono (sia pure insieme all’inflazione). Ora: lo yen si è svalutato del 24% verso il dollaro, e del 20% in termini reali verso le principali valute dei partner, da ottobre 2012 a fine gennaio 2014: è il frutto di una politica ultraespansiva voluta dal premier Shinzo Abe. Le esportazioni? Sono scese, mentre le importazioni sono aumentate. Il deficit commerciale di gennaio – il 35° disavanzo consecutivo – ha segnato un massimo storico a 2.790 miliardi di yen.
Un risultato inferiore alle attese
Le cose non sarebbero dovute andare così. Secondo Jeremy Lawson e Govinda Finn di Standard Chartered, un deprezzamento permanente del 20% – sulla base dell’esperienza del passato –avrebbe dovuto aumentare le esportazioni del 13%, e l’80% dell’incremento sarebbe dovuto esplicarsi entro un anno. Tenuto conto di altri fattori, il Giappone avrebbe già dovuto assistere a un rialzo del 21% dell’export (in volume) e un altro 10% si sarebbe dovuto realizzare nel 2014. Anche tenendo conto solo della storia più recente, per dare maggior peso alla Grande recessione e alle sue conseguenze, i risultati cambiano di poco (+11% l’incremento atteso). Le esportazioni sono in realtà aumentate del solo 3%.
Cosa è successo?
È possibile, spiegano Lawson e Finn, che l’economia risponda oggi più lentamente che nel passato alle variazioni del cambio. In questo caso si potrebbe prevedere un forte rialzo dell’export in futuro. È anche possibile, però, che la riduzione della quota di mercato dei prodotti giapponesi – la più forte tra i Paesi del G-20 – abbia di molto ridotto la competitività delle aziende del paese. Questo significherebbe che per ottenere un rialzo dell’export dell’11-13% occorrerebbe un deprezzamento dello yen molto più elevato del 20% finora ottenuto; e accompagnato da una crescita globale più alta. C’è quindi qualcosa nel sistema-Giappone che non funziona e che il cambio non può aggiustare. Nel settore auto, per esempio, sono aumentate le vendite delle controllate estere e sono calate quelle delle case madri, malgrado l’aumento della domanda interna.
Freni strutturali
Scarsa “distruzione creativa”, una ridimensionata capacità di innovare, un uso inefficiente della forza lavoro, con un livello relativamente basso di partecipazione al mercato del lavoro avrebbero impedito al Giappone di rispondere alla sfida della concorrenza globale e soprattutto di quella cinese. Il paese sembra inoltre aver bisogno di più importazioni di un tempo, e non solo nel settore energetico, a causa dell’incidente di Fukushima. «Il mercato giapponese è più aperto alle importazioni di quanto si pensi comunemente, e i cambiamenti nella domanda interna tendono a essere soddisfatti attraverso un aumento delle importazioni molto più di prima», spiega Masayuki Kichikawa di BofA Merrill Lynch.
Un esito prevedibile?
Va però ricordato che una simulazione di Bennett McCallum della Carnegie Mellon University, compiuto sull’economia giapponese nel 2003, prevedeva come effetto di una politica monetaria ultraespansiva realizzata attraverso il deprezzamento dello yen un tale aumento della domanda domestica che «il saldo commerciale sarebbe colpito da un incremento della produzione reale della durata di due anni in modo da diventare negativo e rimanere tale per due anni». L’inflazione attesa, insomma, salirebbe tanto da determinare almeno nelle aspettative un apprezzamento del cambio reale, insieme a un deprezzamento di quello nominale.
Non solo il Giappone
Non può sorprendere allora che quello del Giappone non sia un caso unico. In questi mesi, anche il Brasile fa fatica ad aumentare le proprie esportazioni, e se il saldo con l’estero è migliorato è grazie soprattutto alla riduzione delle importazioni, sempre più care. In questo caso giocano situazioni molto particolari, come le difficoltà dell’Argentina – che ha importato nel 2013 l’87% delle auto esportate dal Brasile – e la svalutazione del suo peso. Andando indietro nel tempo, ci si può chiedere – come fa Lars Christensen di Den Danske Bank – se la ripresa svedese del 2009-2010 sia da legare alla svalutazione della corona o alla politica monetaria espansiva di cui il deprezzamento del cambio era solo un indicatore, un termometro: l’andamento delle esportazioni fu appena più brillante di quelle della Danimarca (la cui valuta è legata all’euro e non si deprezzò).
Il caso argentino
Analogamente, dopo la rottura del currency board nel 2002 e il crollo del cambio, l’Argentina registrò in sei mesi un forte incremento delle esportazioni (+6,7% a tassi annuali) e una flessione delle importazioni (-28%); ma successivamente la crescita fu legata a consumi e investimenti, che spinsero l’import più dell’export in modo tale che il contributo del commercio con l’estero sulla crescita del pil divenne negativo: un freno invece che uno stimolo. Christensen, andando ancora più indietro, ricorda che anche nel ’33, dopo la fine del gold standard deciso da Franklin Delano Roosevelt, fu la domanda interna e non le esportazioni a trainare la crescita.