Il Covid: perché la filosofia «non può» parlarne

 

Gli errori si pagano. Soprattutto se si persevera in essi molto a lungo. I filosofi italiani – Giorgio Agamben, Massimo Cacciari, ma anche Gianni Vattimo – rivendicano il diritto di discutere di covid e di vaccini, con risultati spesso deludenti [qui] e [qui]. In un senso specifico: le loro argomentazioni sono spesso debolissime.

Persino il richiamo di Cacciari sul possibile abuso dello “stato di emergenza”, che si basa su argomentazioni tutte giuridiche, sembra un po’ vacillare: non perché il problema non esista, anzi, ma perché le tesi non appaiono ben fondate. Non accade, insomma – come dovrebbe, di fronte a un pensiero fondamentale – di essere costretti a dire: ecco, questo è un punto, un ragionamento che va tenuto in considerazione, anche quando si propone una tesi diversa, o opposta.

A sorprendere è soprattutto il desiderio, un po’ velleitario, se si guarda agli esiti, di affrontare discipline non filosofiche – la scienza, il diritto – con gli strumenti della filosofia. Dimenticando che il pensiero filosofico si occupa d’altro. Filosofia, scienza, diritto sono discipline anche metodologicamente autonome, nessuna può rivendicare un primato – anche se non ci sono compartimenti stagni tra esse – sulle altre: questo è il punto fondamentale.

Benedetto Croce – l’odiatissimo e quindi mal compreso filosofo abruzzese – aveva spiegato bene con la sua logica dei distinti (che qualcuno si ostina a chiamare “la filosofia delle quattro parole”) che non bisogna confondere i piani: l’averlo ignorato è l’errore che oggi i filosofi pagano. Il dimenticato Carlo Antoni, nel suo Commento a Croce, disegna anzi una genealogia – tutta da rileggere e ridiscutere – dell’approccio italiano al pensiero e alla filosofia, tutta centrata sulla distinzione tra ambiti diversi del pensiero e dell’azione.

Si pensa comunemente che Croce abbia sottovalutato la scienza. Non è così: ha solo difeso l’autonomia della filosofia (cercando, si può dire alla luce degli eventi contemporanei, di farle fare grame figure) di fronte agli assalti del neopositivismo. Ha parlato, è vero, di “pseudoconcetti”, quando pensava più precisamente ai modelli scientifici (soprattutto economici): purtroppo il gusto per la polemica ha creato, per molti filosofi, molte incomprensioni, e lui amava molto la polemica. In realtà, quando nella Storia d’Italia deve parlare dello sviluppo di Roma capitale, Croce non esita a far ricorso ad alcune rudimentali statistiche (descrittive, in questo caso) come sostegno delle proprie tesi; e per lui la storia era la disciplina più “alta”, nel senso di più completa, tra le tante della scienza umana.

Per Croce la scienza era sapere pratico, come il diritto e la politica. La filosofia no: era sapere teoretico e storico insieme. Il nesso tra scienza e conoscenza, nel senso pieno della parola, è e resta sicuramente problematico, nel pensiero crociano. Soprattutto se si interpretano i “distinti” come divisi da frontiere rigide, insuperabili come esistono nel mondo reale (ma non nel linguaggio e nel pensiero). I concetti (gli schemi, nel linguaggio più asettico della Logica di Croce) della scienza possono in realtà diventare concetti filosofici, e alimentare la filosofia stessa. Un esempio è la visione probabilistica del mondo, l’incertezza misurabile o radicale che ci circonda, che la scienza sta un po’ imponendo: in questo caso, a un certo punto, la scienza fa “un salto” – assolutamente legittimo – verso la filosofia (che poi se ne occupino scienziati e filosofi è relativamente irrilevante, purché siano ‘competenti’).

Non esiste un discorso filosofico, teoretico, sul virus, sull’epidemia, sul green pass, sull’obbligo vaccinale e sulle loro conseguenze pratiche: è un discorso scientifico o giuridico mascherato; oppure scade in chiacchiera. Sbaglia allora chi ritiene che questi discorsi siano da riservare ai filosofi (tesi sostenuta da uno studioso che si considera… crociano). Sono da riservare ai competenti: a chi ha studiato approfonditamente questi temi e sa usare i metodi delle discipline in gioco (il “foglio di carta”? No, quello ha solo, eventualmente, un valore segnaletico, tutto da verificare. Per usare un linguaggio da bar: un cretino co Phd è innanzitutto un cretino, poi ha anche un dottorato).

Il filosofo che vuole discutere di vaccini, deve “trasformarsi” (studiando) in un immunologo, colui che vuole parlare di epidemia, deve essere un epidemiologo (e sapere tanta statistica), colui che vuole parlare del green pass, in un giurista esperto di diritto costituzionale (e di diritti umani); e deve dimostrare di essere all’altezza dei migliori. Altrimenti si pronunciano parole vuote: si nominano cose e pensieri senza “pensarli” davvero. Oppure si esprimono preferenze personali, come fa ogni cittadino indipendentemente dalla propria competenza; e ricoprirle di un linguaggio ‘alto’ potrebbe essere un’operazione non corretta, nel senso di malriuscita.

Esiste invece un discorso filosofico sui concetti che la recente epidemia ha reso rilevanti. Non è necessario, per capirlo, adottare la visione crociana dei concetti – comunque da rivalutare – ultrarappresentantivi e omnirappresentativi, che sembrano molto vicini ai Superconcetti di cui parlava Ludwig Wittgenstein: si tende oggi ad avere una visione più creativa, più ampia dei concetti. Si pensi a Gilles Deleuze e Félix Guattari (per i quali sembra sorgere però il problema del criterio di validità del loro discorso): Deleuze usava concetti matematici o musicali, per sviluppare però un discorso tutto filosofico (e matematici e musicologi, giustamente, non si ritrovano in essi: ma anche Rousseau disegna la sua volonté générale come un integrale, senza voler dire nulla sull’analisi matematica).

Dall’epidemia può sorgere, per esempio, il discorso sulla libertà umana, sull’autorità politica e la sua giustificazione, sull’incertezza della vita umana, se si vuole anche sulla “gettatezza” – per evocare Martin Heidegger, molto amato da quegli autori – dell’esistenza (o dell’essere) degli uomini e delle donne (pardon: del Dasein). Se si vuole anche su scienza, filosofia, politica, diritto e sul loro rapporto.

Distinguere è fondamentale, e l’odiata filosofia di Croce – che negli ultimi anni rifiutò anche di considerarsi idealista, passo fondamentale ma non apprezzato come sarebbe stato necessario – è un buon punto di partenza (e non è necessario che sia niente di più). Il filosofo abruzzese non amava la scienza ma ha avuto alcune importanti intuizioni su essa. A cominciare dall’idea dell’economia come matematica applicata, oggi sempre più vera, che anima anche l’altra “distinzione” costantemente respinta con sdegno (anche recentemente), ma che in realtà è fondamentale e che rappresenta l’insuperato (e poco discusso) contributo italiano alla teoria del liberalismo: quella tra liberalismo e liberismo, che dopo qualche decennio è diventata la distinzione tra una concezione della vita, individuale e collettiva, e un approccio scientifico (e quindi non dottrinale, ma pragmatico, concreto) all’economia e alla politica economica. C’è molto da riscoprire…