“Tanto sono vecchi…”. No, forse nessuno ha detto parole così crude, durante questa epidemia di coronavirus, durante la quale abbiamo tutti fatto fatica a capire quali decisioni bisognava davvero prendere. Pensieri appena meno ruvidi sono stati però espressi nel dibattito pubblico: si è parlato della maggiore produttività dei giovani rispetto agli anziani; un economista, non molto noto in realtà, ha persino spiegato sui social network che il “valore marginale” – attenzione: valore, evidentemente in termini di utilità – di un giorno perduto da adolescente è superiore al valore marginale di un giorno perduto da anziano.
Ci sono errori di fatto ed errori logici, dietro queste idee. Gli ospedali e i reparti di terapia intensiva pieni, per esempio, non mettevano a rischio solo gli anziani gravemente ammalati di Covid, ma anche i giovani che avevano subito un incidente, o un infarto o un ictus, e anche i malati di cancro, e mille altri. Non è inoltre pensabile – anche se c’è chi lo ha fatto, e giustamente: occorre spingere le idee fino al loro limite e oltre, per vedere se reggono, se sono utili all’analisi– applicare nozioni economiche al di là dei mercati, dove si producono beni e servizi da scambiare in cambio di denaro.
Non è questo il punto, però. Il problema è un altro. Di fronte a due tragedie – le vite, spezzate e messe a rischio, di milioni di persone, e la perdita di reddito e il rischio di povertà di altri milioni – si è pensato che morte e povertà potessero essere messe sullo stesso piano. A tanti – a tutti, forse, prima che le cose diventassero più chiare – è sembrato assolutamente normale. Agli economisti – in cerca di un trade off, di un compromesso, un equilibrio – più che a chiunque altro; ma anche a molti politici. Un trade off era però impossibile: la crisi economica è sempre stata nelle mani di medici, infermieri e ricercatori.
È un po’ paradossale: nel momento in cui, per propaganda politica, o anche per amore sincero delle proprie radici, si parlava della cultura europea, e addirittura semplicemente cristiana, si è insomma dimenticato del valore supremo di ciascuna vita umana. Un filo rosso – sempre controverso, contestato, nel pensiero e nell’azione degli europei – attraversa in realtà una parte almeno del pensiero antico e del cristianesimo, l’umanesimo rinascimentale (soprattutto quello italiano), l’Illuminismo (che non è solo francese) e giunge fino ai giorni nostri, al dibattito tra umanesimo e antiumanesimo: ed è proprio quello della dignità della vita di ciascun individuo.
Non c’è una utilità maggiore o inferiore, un valore maggiore o inferiore tra la vita di un essere umano e quella un altro: non c’è un criterio oggettivo che permetta di stabilire una gerarchia. Non c’è un altro valore che possa superare quello della vita umana di ciascuno di noi. La povertà – tragica, come poche altre cose – è invece superabile (e anche questo occorre ricordarselo sempre, anche nel dibattito politico). Può essere limitata nel tempo. Più concretamente, i governi avrebbero potuto, e dovuto, concentrare tutte le risorse disponibili e recuperabili per sostenere il reddito di chi non ha potuto lavorare, mentre molto denaro si è perso in mille rivoli, tra interventi risibili – sono stati così giudicati, per esempio, i bonus per i monopattini – e interventi paternalistici – vengono in mente anche alcuni progetti dei recovery plans – ma si è fatto decisamente meno del necessario.
Durante la pandemia, in realtà, si è andati anche oltre. Si è parlato di mancanza di libertà: la libertà di uscire, di acquistare, di fare sport, di andare al cinema a teatro in vacanza. Nelle prigioni turche, in quelle di Hong Kong, in Russia, in Egitto e in mille altri paesi del mondo molte persone soffrivano e soffrono ancora oggi, per decisioni arbitrarie, di gravi violazioni della libertà personale, segnate da detenzioni lunghe, ingiuste, a volte mortali; ma da noi la dittatura era la temporanea, e indubbiamente dolorosa, impossibilità a uscire di casa. Faticosa, è ovvio, in alcuni casi eccessiva – si è parlato di “creare l’atmosfera della crisi”, come si fa, in modo non più intelligente, nelle imprese – in altri casi eccessivamente applicata. Si è sicuramente andati oltre il dovuto, sul piano costituzionale, nel rafforzare i poteri dell’Esecutivo (e bisognerà rivederli, per tornare a una piena democrazia rappresentativa, parlamentare).
Anche in questo caso, però, si è perso di vista qualcosa. La libertà – che è davvero la chiave di volta del comportamento umano: personale, sociale, politico – è stata interpretata come la pretesa di soddisfare qualunque desiderio: uscire la sera, partecipare alla movida, sciare. Anche accettando il rischio di danneggiare quella che viene chiamata “la salute pubblica”, che è poi la vita e la salute di alcuni individui, a priori indeterminabili ma, nel tempo, colpiti in modo tragicamente preciso dal comportamento altrui e dal virus. Come se non fosse possibile definire una differenza – non necessariamente decisa autoritariamente, dall’alto – tra la piacevolezza di soddisfare di un desiderio temporaneo, transitorio, personale e le grandi scelte, altrettanto personali, individuali, che definiscono cosa vogliamo davvero essere, il senso che vogliamo dare alle nostre esistenze e il mondo in cui vogliamo vivere.
La pandemia spinge oggi a pensare ai grandi temi dell’esistenza umana anche al di là della vita e della morte. Segna innanzitutto un limite, un confine. Il limite entro il quale possiamo usare un criterio puramente utilitaristico – importante, fondamentale – per le nostre piccole scelte; e oltre il quale occorre un criterio diverso, per le nostre scelte più durature, più generali, più radicali. Spinge a ripensare, su basi diverse e – di nuovo – non in via autoritativa, né paternalistica quale sia la libertà, o le libertà che definiscono le nostre vite e la società in cui viviamo.
Un solo modo secondo me ci permette di pensare, nella sua radicalità, il pensiero di tutto quello che è oltre l’utilitarismo e dà piena dignità a ciascun uomo e a ciascuna donna: pensare l’etica e la politica con Immanuel Kant. Non attraverso i suoi recenti, e preziosi, tentativi di attualizzazione (Rawls, Apel, Habermas i primi nomi, non i soli, che vengono in mente), ma proprio la sua sistematica identificazione tra ragione e libertà, tutta da riscoprire. Nella consapevolezza che, certo, sono passati quasi trecento anni dalla nascita del filosofo, durante il quale il mondo, e il pensiero del mondo si sono evoluti, anche in modo tragico; e che non tutto è accettabile nei dettagli del suo approccio; ma anche che qualcosa del suo pensiero, tra ingenerose accuse di rigorismo, di astrattezza e di “inapplicabilità”, si è perso.
Solo Kant – semplificando e procedendo per pennellate impressionistiche – fa però della libertà (e della ragione critica) la chiave di volta del suo sistema e nello stesso tempo invita l’azione degli uomini e delle donne – sul piano etico e sul piano, separato della politica – a tener fermo il principio della dignità piena di ciascuno di noi, l’idea che ogni nostra azione debba anche – e anche è il termine cruciale – evitare di trattare le altre persone come mezzi. È un pensiero complesso che sfocia, sul piano politico, su tre principii, libertà, eguaglianza e – attenzione! – indipendenza; e su due idee chiave: il cosmopolitismo, il diritto di ciascuno a godere ovunque dei suoi diritti, e la pace perpetua, da garantire con un sistema giuridico internazionale simile a quello che anima l’Unione europea.
C’è bisogno d’altro per mostrare, quantomeno, la sua attualità?