I brevetti sulle medicine, insieme ai divieti di importazione che permettono alle case farmaceutiche di imporre prezzi diversi da paese a paese, creano negli Stati Uniti una strana situazione. Secondo una ricerca dell'Università di Boston – che risale in realtà al 2004, ma che resta rilevante anche oggi – gli americani pagano un farmaco in media l'81% in più dei canadesi e degli europei.
Questo può aiutare non solo e non tanto a spiegare le preoccupazioni per la sostenibilità della riforma Obama, ma anche a distinguere – negli Usa come altrove – proposte politiche populiste, che cavalchino un generico desiderio di pagare meno tasse, da quelle serie. Il sistema sanitario nazionale, pubblico, non serve soltanto ad aiutare i più poveri e coloro che si trovino improvvisamente in uno stato di acuta necessità perché gravemente ammalati; ma, evidentemente, anche a ridurre le enormi distorsioni create da brevetti e da altri interventi sempre pubblici che creano posizioni monopolistiche e che non sembrano sempre giustificate dalla necessità di incentivare l'innovazione. Ogni proposta seria di apertura al mercato del settore sanitario non può quindi che affrontare anche il tema della riduzione di queste rendite monopolistiche delle aziende attive nel settore (e in parte anche dei professionisti), peraltro non sempre facile da attuare a livello nazionale. Altrimenti corre il rischio di usare due pesi e due misure.