Lei si chiama Hu Xiaolian, ha 52 anni. È una donna, e possiede le chiavi del futuro dell’economia cinese. Oggi è “solo” vicegovernatore della Banca del Popolo Cinese, dopo essere stata negli anni scorsi responsabile dell’Amministrazione statale per i cambi. Sa bene cos’è lo yuan, come funziona e come deve comportarsi per meglio servire l’economia cinese. E ora sta cercando di convincere le autorità del suo paese: quella moneta deve diventare un po’ più flessibile, e quindi deve apprezzarsi. È – spiega – il sistema di socialismo di mercato voluto da Jiang Zemin, ora, a richiederlo.
Il compito, davvero difficile, è stato affidato a cinque articoli, pubblicati tra maggio e agosto. Si presentano come un elogio alle politiche economiche cinesi dal ’93 a oggi, con una particolare attenzione al passaggio dal cambio fisso all’attuale "cambio con fluttuazione governata" (managed floating exchange rate regime); ma preparano anche gli ulteriori passi nel futuro. Con molta prudenza: i cinque lavori devono anche respingere le critiche dei conservatori, di chi vorrebbe mantenere lo yuan fermo e sotto rigido controllo. Hu lo fa prendendo sul serio le mille obiezioni. «Mentre ulteriori progressi nella riforma del regime di cambio – scrive – forniscono un grande potenziale di ulteriori benefici, saranno necessari sforzi per minimizzare i possibili impatti negativi», di cui dà ampio conto. Tutto molto cinese.
Ulteriori riforme sono però necessarie. Hu le delinea abbastanza chiaramente. Il cambio dovrà dipendere da domanda e offerta, anche se solo quelle "sane": per evitare la speculazione finanziaria e i suoi strappi un riferimento costante saranno i conti con l’estero. Sarà probabilmente l’andamento di questi saldi, quello commerciale più di quello corrente, spiega Qing Wang di Morgan Stanley – che ai cinque articoli ha dedicato una ricerca – che «sarà usato come un’importante indicatore di livello della domanda e dell’offerta sottostante». Il punto di aggancio non sarà più, di conseguenza, il solo dollaro, ma sempre di più un paniere di valute e quindi il cambio nominale effettivo: dal 2005 la Banca del Popolo cinese ha adottato, per calcolarlo, un basket di 11 valute (dollaro Usa, euro, yen, won coreano più ringgit malese, dollaro di Singapore, rublo, dollaro canadese, sterlina, dollaro australiano e baht thailandese) senza rivelare il peso di ciascuna moneta (presumibilmente analogo a quello dell’interscambio). «In futuro – ha però annunciato Hu Xiaolian – sarà valutata (l’opportunità di) pubblicare informazioni sul cambio nominale effettivo su base regolare e di spostare l’attenzione del pubblico dal renminbi/dollaro al cambio effettivo che è il vero riferimento dei suoi movimenti».
Ci vorrà tempo. Per passare davvero dal dollaro a un paniere di valute – lo ricordano Glenn Maguire e Wei Yao di Société générale – occorrerà diversificare in parallelo le riserve valutarie, un tesoro da 2.500 miliardi di dollari. Sarà un lavoro lungo: dietro la riforma del regime di cambio si nasconde quella dell’intera economia cinese. Perché infatti occorre uno yuan più flessibile? Perché «il cambio – scrive Hu – rappresenta le relazioni di prezzi tra beni e servizi tradable (aperti alla concorrenza internazionale, ndr) e quelli non-tradable e apprezzare lo yuan significa spostare risorse dai primi ai secondi. Non inganni l’apparente astrattezza: qui si parla di rivitalizzare quei settori che strutturalmente soddisfano la sola domanda interna, e di ridurre quindi la dipendenza del Paese dalla domanda internazionale.
La Cina ha davvero bisogno di questo. Tra qualche anno, – forse solo 5 o 10, in realtà – la forza lavoro comincerà a calare, per ragioni demografiche: la politica di riduzione delle nascite, avviata molto tempo fa, sta già avendo effetti importanti sull’economia. Famiglie numerose e allargate, ma con uno-due figli, stanno riducendo i consumi e aumentando i risparmi, in attesa del momento in cui peseranno in tanti su poche fonti di reddito.
Ben presto, però salari e stipendi, che la Hu chiama, allargando la visuale, «prezzi dei fattori», dovranno aumentare. E questo rende ancora più importante un "cambio flessibile" o, uscendo dalle prudenze cinesi, uno yuan più alto, che riduca il costo delle importazioni, dalle quali il paese dipende per consumi e produzione «a causa di una dotazione di risorse naturali sfavorevole». In questo modo si «creerà un ambiente di bassa inflazione favorevole alla riforma dei prezzi dei fattori di produzione». La Cina teme infatti l’inflazione, e Hu – un tempo componente alternate del Comitato centrale del Partito comunista – ricorda quanto questa sia dannosa citando uno dei meno "socialisti" tra gli economisti: «Come ha detto Milton Friedman, il premio Nobel, è una malattia pericolosa che può essere fatale e distruggere l’intera società, se non controllata. In Cina è il gruppo a basso reddito, soprattutti i 40 milioni che vivono nelle città e i quasi 100 milioni di migranti che sarebbero colpiti più duramente dall’inflazione».
Il rischio è forte: impedire allo yuan di apprezzarsi è stato possibile solo creando sempre più liquidità. Questi sforzi «sono diventati la maggior fonte di offerta di moneta di base», nota Hu e questo «danneggia l’indipendenza della politica monetaria»: il problema della causa più profonda di questa liquidità «non è stato risolto», e per farlo occorre ridurre la presa sul cambio. Altrimenti fenomeni come la recente bolla immobiliare saranno destinati a ripetersi e aggravarsi.
Può sembrare un po’ paradossale che, per conservare la presa sull’economia – sempre più un "capitalismo di partito" più che "di stato" – il Pcc debba affidare la sua valuta ai mercati internazionali e al gioco della domanda e dell’offerta, sia pure "depurato" dalle componenti speculative, e persino al «valore segnaletico», informativo del cambio, che rappresenta qualcosa in più di un’eco delle idee di un’altro economista molto poco socialista, Frederich von Hayek. È questa però la sfida che l’economia pone alla politica.
Non è detto che il Pcc riuscirà davvero, nel lungo periodo a conservare il suo ruolo. In ogni caso, e già nell’immediato, dietro la riforma dello yuan si nasconde un’intera rivoluzione, non solo culturale, di cui il mondo non potrà che risentire. Subito, attraverso la diversificazione delle riserve, che penalizzerà il dollaro e spingerà le altre valute, tra cui l’euro; poi attraverso una nuova struttura della domanda e offerta di risorse, di prodotti e di credito.
In questo modo, tra qualche scossone, il pianeta vedrà ridurre le sue fonti di squilibrio economico. Purché non faccia un errore grave: quello di pensare davvero che questo compito pesi solo sulle spalle di Hu e della sua Cina.