Il mercato ha reagito subito. Dopo che il presidente della Federal reserve di St. Louis James Bullard ha lanciato l’allarme deflazione, giovedì 29 luglio, Wall Street ha iniziato a perdere terreno, chiudendo poi in leggero calo. L’effetto è stato breve, come spesso avviene sui mercati, e quelle parole sono state presto dimenticate, ma meritano invece grande attenzione. Non solo perché uno dei governatori critica apertamente la politica della sua banca centrale, contestando la “promessa” a mantenere tassi bassi «per un lungo periodo»: è già avvenuto con Thomas Hoenig di Kansas City che ha anche votato contro le ultime decisioni della Fed, e negli Stati Uniti, come altrove, tutto questo è normale.
Merita attenzione anche perché l’analisi dell’economia che sostiene le affermazioni di Bullard, assolutamente in linea con le recenti ricerche, è molto lontana da quella retorica alla quale i policymakers e gli economisti ci hanno abituati, quella che parla di mercati che regolano se stessi e tendono a un equilibrio stabile. In fondo il discorso scientifico viaggia ormai da tempo molto lontano, e parla di equilibri multipli, non sempre stabili e quasi mai ottimali (sui quali non sempre la politica può farci qualcosa…).
L’idea che gli Stati Uniti – e, molto probabilmente, anche altre economie – potrebbero scivolare in deflazione (e stagnazione) deriva da un modello economico che prevede due equilibri: uno con tassi d’interesse e inflazione normali – rispettivamente 2,3% e 2,8% per gli Usa – l’altro con deflazione (-0,5%) e tassi zero (0,10%). Entrambi sarebbero anche stabili: occorre quindi grandi sforzi perché si possa tentare di spostare l’economia da un equilibrio all’altro.
La teoria è piuttosto complessa. Risale al 2002 ed è legata a Jess Benhabib, economista dell’Università di New York. Usa modelli standard, con presupposti un po’ irrealistici – per più esperti, è un Dynamic Stochastic General Equilibrium (Dsge) model, con consumatori eterni dai consumi identici e aspettative razionali, mai sistematicamente sbagliate (poi sono stati sviluppati altri approcci – ma considerati indispensabili almeno fino alla crisi: uno di quelli che, secondo i critici, sono distorti in modo da “prevedere” la stabilità dei mercati ma che fin dagli anni Ottanta hanno mostrato, a sorpresa, risultati caotici (un po’ come facevano gli abbandonati sistemi di acceleratore-moltiplicatore).
Semplificando al massimo, la teoria prevede due curve. Una sui rendimenti nominali del mercato privato, pari alla somma tra l’inflazione e un rendimento “sicuro” individuato nello 0,50%, e l’altra che cerca di “seguire” la politica monetaria delle banche centrali, ben descritta dalla Taylor rule, la regola di Taylor, in base alla quale i tassi di interesse ufficiali sono fissati tenendo costantemente conto della distanza tra l’inflazione effettiva e quella desiderata.
Le due curve si incrociano, ma in due punti. La complessa teoria matematica che accompagna queste ricerche dimostra che questi due equilibri sono stabili: l’economia, una volta che si allontana per uno shock, tende a tornare su di essi. Il più vicino.
La realtà che dice? Parla del Giappone, che da decenni vive intrappolata nel secondo, decisamente meno desiderato, equilibrio. Finora si pensava che fosse un’eccezione – e lo stesso Bullard ammette di essersi a lungo cullato in questa illusione – magari legata alla natura particolare di quell’economia. Ora però si comincia a pensare che quell’anomalia sia invece la normalità di una regola più complessa. Il grafico che accompagna il paper di Bullard è molto chiaro e riesce a spiegare abbastanza sia la storia recente dei due paesi sia la tendenza, mostrata dagli Stati Uniti, di scivolare in un equilibrio “giapponese”.
L’obiezione, a questo punto, è semplice. Qui non parla di un mercato puro, ma di un mercato e di una politica economica. Cambiando strategia monetaria si può forse evitare l’equilibrio “sbagliato”. Infatti fin dai primi lavori di Benhabib è la Taylor rule a essere considerata destabilizzante (il suo paper del 2002 si chiama The perils of Taylor rules, I pericoli delle Taylor rules), perché crea una trappola della liquidità. Ma quali sono le alternative?
La prima è semplice. Concentrarsi sulla politica fiscale. È noto dai tempi di Keynes che, una volta che i tassi sono scesi a zero, tocca alle spese pubbliche rilanciare l’economia. Bullard esamina questa via, ma la scarta. Non per ragioni teoriche: in fondo si tratterebbe solo di minacciare un diluvio di debiti pubblici per costringere il sistema privato a evitare l’equilibrio deflazionistico. Ma a causa della crisi di Eurolandia: «Questa proposta mi colpisce perché è selvaggiamente in contrasto con la realtà dell’economia mondiale: potrebbe funzionale in un modello astratto, ma la praticità di avere un governo che, in sostanza, minaccia l’insolvenza ed è creduto, mi sembra che si fondi troppo sulle aspettative razionali del settore privato. In più, governi che tentino una simile politica nella realtà giocherebbero sicuramente con il fuoco. La storia delle performance economiche delle nazioni che vacillano sull’orlo dell’insolvenza è terribile».
Un’altra possibilità è sganciarsi dalla Taylor rule, che oggi consiglia tassi a zero. Tassi ufficiali negativi – che pure sono stati proposti, per esempio da Gregory Mankiw dell’Università di Harvard, ex consigliere economico di George W. Bush – sono difficili da ottenere (si potrebbe pensare a una tassa sulla moneta, in linea con Silvio Gesell, ma anche Irving Fisher e John Maynard Keynes) ma non sembra evitino il problema degli equilibri indesiderati. Tassi invece positivi e comunque più alti dello zero – per esempio all’1,5%, o al 2%, un livello che per 314 anni è stato il minimo mai toccato – eviterebbero del tutto l’equilibrio giapponese e sono stati proposti anche partendo da punti di vista diversi: la Banca dei regolamenti internazionali ha già lanciato l’allarme sui pericoli di inflazione finanziaria e al consumo derivante da tassi di interesse troppo bassi e il 29 luglio sul Financial Times Raghuram Rajan della Booth School of Business dell’Università di Chicago – che già aveva “previsto” la crisi del 2007 – ha chiesto alla Fed, senza giri di parole, di alzare il costo del denaro. Una stretta, sia pure “mini”, sarebbe oggi difficile da giustificare, però; e persino la Bce – che ha voluto ufficialmente mantenere i suoi tassi all’1% – ha in realtà concesso al mercato di scendere al di sotto di questo livello.
Uscire dalla trappola è allora «problematico». Pensare che la Fed abbia centrato il tiro tenendo tassi bassi «per un periodo esteso» è sbagliato, secondo Bullard: non garantisce per nulla che le aspettative di inflazione aumentino davvero e potrebbero anzi avere l’effetto opposto e, in più, alimentare bolle finanziarie (come teme Hoenig). Il presidente della Fed di St. Louis propone allora che la Fed acquisti soprattutto titoli di Stato, e non solo quelli delle agenzie Fannie Mae e Freddie Mac come ha prevalentemente fatto finora, espandendo anzi la sua politica: in Gran Bretagna – oggi alle prese con l’inflazione – la strategia ha funzionato; e se in Giappone questo non è successo è stato perché – conclude Bullard – la Banca centrale non è riuscita a convincere il mercato di voler fare sul serio fino a quando non si fosse raggiunto l’obiettivo.