Ha praticamente sbattuto la porta e se ne è andato. Lui smentisce, racconta che i preparativi per il suo matrimonio, a settembre, lo avrebbero distratto troppo, che era molto stanco dopo aver lavorato per anni sotto pressione…
La realtà, ha raccontato sabato 26 giugno il Financial Times, è che Peter Orszag, il direttore per il budget della Casa Bianca, non era d’accordo con lo staff di Barack Obama, disattento – secondo lui – alle conseguenze di lungo periodo della politica fiscale. Non è venuto meno alla lealtà verso il presidente: se si fosse dimesso alla presentazione del nuovo budget a gennaio, ha raccontato una fonte, l’effetto politico sarebbe stato clamoroso. Se ne è andato «in modo amichevole», sembra; ma le sue dimissioni (annunciate all’inizio della settimana) peseranno, e molto.
Nessuno pensi però che la Casa Bianca sia votata all’irresponsabilità: la questione è decisamente più complessa. Orszag avrebbe voluto che Obama venisse meno alla promessa fatta agli elettori di non aumentare le tasse per coloro che guadagnano meno di 250mila dollari, il 98% degli americani: pensa che la situazione dei conti pubblici richieda la rottura del patto. Il capo dello staff, Rahm Emanuel, è invece contrario: pensa probabilmente che sia un suicidio politico, come ha insegnato l’esperienza di George Bush padre, soprattutto a pochi mesi dalle elezioni di mid-term.
Sarebbe anche sbagliato pensare che la grande battaglia propagandistica sulla politica fiscale, animata dai repubblicani e soprattutto dalla frange più ideologizzate del tea party, abbia lambito la Casa Bianca. Le questioni sollevate da Orszag sono squisitamente tecniche e mostrano piuttosto la difficoltà di gestire i conti pubblici in questo periodo. È il lungo termine che preoccupava infatti l’ex direttore del budget: se Obama non romperà la sua promessa elettorale, le uniche altre possibilità – secondo Orszag – saranno tagli insostenibili alle spese o imposte sui ricchissimi a livelli pre-Reagan (negli anni 50 l’aliquota marginale più alta raggiungeva il 91%). Non ha quindi esitato a difendere al Senato la proposta di aumentare gli interventi di sostegno a breve termine, a cominciare dai sussidi di disoccupazione.
L’attuale struttura dei conti pubblici americani pone infatti due problemi: crea insostenibilità nel lungo periodo e frena l’economia nel breve; e questo moltiplica le difficoltà. L’attuale deficit di bilancio non è più espansivo, anche se restano da spendere circa 300 miliardi di dollari. «Quando si parla di crescita economica – spiega Michael Feroli in un’analisi per la JPMorgan – è il cambiamento incrementale delle spese che conta»: le variazioni, non i valori assoluti. Il disavanzo che diminuisce, quindi, «farà camminare l’economia Usa con il freno a mano tirato», con l’effetto più intenso a inizio 2011. Persino l’estensione delle misure difesa da Orszag non riuscirebbe a invertire la tendenza.
Calcolare l’impatto delle spese pubbliche non è semplice. Si pensa che negli Usa le spese dirette abbiano un effetto maggiore, nell’ordine, dei trasferimenti alle persone, dei tagli alle tasse e dei trasferimenti a stati ed enti locali, con un ritardo molto variabile e non sempre chiaro. Su queste basi, JPMorgan si spinge a prevedere un "freno" di 1,25 punti sulla crescita del prossimo anno e mezzo, che dovrà "fermarsi" al 3,25% grazie a un traino del settore privato del 4,25 per cento.
Sono stime molto incerte. Fanno però impallidire i numeri – per esempio – proposti per Eurolandia. E spiegano forse le ansie di Orszag che, una volta risolte le questioni immediate più spinose – a cominciare dai sussidi sulla disoccupazione – pensava che fosse ormai il momento giusto per affrontare le insostenibilità del lungo periodo.
Affidarsi a tasse e spese pubbliche significa però incontrare mille ostacoli. L’incertezza dei loro effetti – in parte dovuta anche a ricerche empiriche relativamente scarse – ne rende difficile una gestione tecnica che deve fare anche i conti sia con scelte politiche spesso disinteressate alle ricadute economiche e al lungo periodo sia, a volte, con un’opinione pubblica catturata dalla propaganda. Troppo per Orszag, che ha deciso di gettare la spugna.