Il prezzo della crescita

I tormenti che agitano oggi Eurolandia, le aspre divisioni che si sono create tra i paesi più deboli, indebitati e in deficit commerciale, e quelli più forti, in surplus commerciale, hanno una sola cura: una crescita più rapida e quindi più posti di lavoro e una maggiore produttività. Solo così potranno diventare sopportabili i sacrifici chiesti ai cittadini delle economie in difficoltà, i quali avranno ricadute importanti anche in quei paesi – Germania, Olanda, Austria, Finlandia – che hanno potuto esportare per anni in Grecia, in Portogallo, in Spagna grazie ai loro debiti.

A sentir loro, i policymakers di tutto il continente non cercano altro che un’economia più dinamica e nuova occupazione, ma la realtà è molto diversa. Perché per avere crescita non bastano certo, come chiedono invece tutti, le già dolorose riforme delle pensioni e del mercato del lavoro – la Spagna è stata la prima della classe, in questo campo, con risultati non brillanti – ma occorre molto di più: bisogna intervenire sui mercati dei prodotti e dei servizi, sulle strutture delle società e dei gruppi, permettere che alcune aziende nascano e crescano e altre declinino, rinunciare a banche e industrie protette dal governo perché "campioni nazionali",  lottare contro la corruzione e la criminalità organizzata, chiedere che, partendo dall’alto, l’intera struttura dell’economia si apra alla competizione e all’innovazione e diventi più flessibile, che ogni impresa e ogni imprenditore si rimetta in gioco, all'interno di un sistema finanziario sano.

Ma… quanti vogliono davvero pagare questo prezzo?