Era una fonte di stupore e di preoccupazione. La politica estera cinese, nei mesi scorsi, è stata segnata da una lunga serie di accordi commerciali con i paesi produttori di materie prime. Una strategia a volte spregiudicata – agli occhi occidentali – perché sosteneva regimi dittatoriali, vanificando n alcuni casi le sanzioni economiche decise a Washington e a Bruxelles.
Ora le cose stanno un po’ cambiando. Lo sviluppo della Cina continuerà ad alimentare la domanda di risorse minerarie e le pressioni sui prezzi. La richiesta è però destinata a rallentare, sia pure in modo graduale. «Il pacchetto di stimolo basato su investimenti e infrastrutture prevede un uso intenso di materie prime nel 2010 e nel 2011 – spiega Glenn Maguire in un’analisi della Société Générale – ma l’avanzamento dei lavori di ferrovie e aeroporti è vicino al completamento e la Cina ora ha bisogno di beni capitali come segnali, meccanismi per gli scambi, sistemi di controllo computerizzato, radar e così via».
Le dimensioni degli investimenti pubblici si faranno sentire, e molto, anche a livello macroeconomico. Gli acquisti di macchinari diventeranno quindi sempre più importanti, e la "fame" di materie prima sempre più indiretta. A marzo 2010, le importazioni dall’estero di beni capitali è aumentata al ritmo impressionante del 50% annuo, e presto la quota di questi prodotti sul totale dei beni acquistati oltre frontiera comincerà ad aumentare rispetto alle commodities. Nello stesso mese – e non è un caso – le esportazioni tedesche sono cresciute del 10,7% mensile e hanno raggiunto un livello inferiore del solo 7% al record toccato prima della crisi.
Il gioco delle valute, aggiunge infatti Maguire, non potrà che avvantaggiare Eurolandia (attraverso la sua maggiore economia). «La combinazione tra l’indebolimento dell’euro e l’evoluzione dell’attività di costruzione di infrastrutture in Cina verso una fase caratterizzata dall’uso più intenso di beni capitali sta già sostenendo il commercio con l’estero tedesco», spiega la ricerca di Sg. Insieme alla zona euro, risulterà avvantaggiata anche la Corea del Sud, il cui won sta perdendo terreno; mentre Stati Uniti e Giappone potrebbero restare un po’ indietro. «I produttori di beni capitali coreani ed europei sono meglio posizionati per beneficiare di queste dinamiche, mentre gli americani e i giapponesi probabilmente perderanno queste opportunità a causa della notevole perdita di competitività (in termini di cambio, ndr) dell’ultimo mese».
Non è un’esagerazione. Il dollaro e lo yen, da novembre, hanno guadagnato verso l’euro il 17% verso, mentre lo yuan (e la rupia indiana) sono salite del 22 per cento. Nel solo mese di maggio la valuta di Pechino si è apprezzata dell’8%, restando ovviamente stabile verso la moneta americana. Il won coreano, sempre da inizio mese, ha perso l’11% – in termini reali – nei confronti delle principali valute. Questi movimenti dei cambi, ricorda poi Maguire, aiutano Eurolandia senza limitare le importazioni di Pechino. «Raramente le performance commerciali cinesi hanno seguito, rispetto al cambio, le indicazioni dei "libri di testo". Tra dicembre 2004 e giugno 2005 lo yuan è salito del 15% sull’euro, «ma nella seconda metà del 2005 – aggiunge lo studio Sg – le esportazioni europee verso la Cina hanno segnato una crescita media del 32% annuo». Il vecchio continente, in quel periodo, divenne il primo partner commerciale dell’impero di mezzo.