Finalmente. Dopo aver firmato con Giorgio Agamben un post un po’ deludente sul green pass, Massimo Cacciari ha deciso di affidare al quotidiano La Stampa una lunga e articolata riflessione sullo stesso tema. Da un grande intellettuale – la sua filosofia merita grande rispetto per il suo valore teoretico, anche da parte di chi non ne condivide l’orientamento complessivo – non ci si poteva aspettare altro.
L’articolo, nel quale Cacciari mette in moto molti concetti (e autori) presenta il green pass come una parte di qualcosa di molto più grande e duraturo. “Viviamo da oltre un ventennio – scrive Cacciari – in uno stato di eccezione che di volta in volta, con motivazioni diverse, che possono apparire anche ciascuna fondata e ragionevole, condiziona, indebolisce limita libertà e diritti fondamentali”.
Qui è immediatamente richiamato uno dei grandi autori di Cacciari: Carl Schmitt, giurista e teorico della politica, personalmente reazionario – giustificò l’ascesa al potere di Hitler, poi se ne allontano e fu allontanato dai nazisti – ma spesso e volentieri citato, per la profondità del suo controverso pensiero, da molti autori anche di sinistra (e persino, marginalmente, da qualche raro liberale). Per Schmitt, teorico del decisionismo, il sovrano – colui che detiene la sovranità – è colui che decide dello stato di eccezione.
Cacciari adotta Schmitt per il suo realismo (contestabile, ma non è questo il luogo per criticarlo) con le dovute cautele, come mostra il riferimento alle libertà e ai diritti fondamentali (con i quali il pensiero di Schmitt non ha grande dimestichezza). Sarebbe sbagliato quindi evocare il nazismo di Schmitt (qui ricordato per completezza). Si può ricordare, però, che altri giuristi danno allo “stato di eccezione” un valore diverso. Pregiuridico, per esempio, piuttosto che giuridico in senso stretto,
L’aspetto più interessante qui, però, è l’uso del singolare. Cacciari parla di uno stato di eccezione che dura da venti anni. È una scelta che, immediatamente, fa della pandemia una parte, forse neanche un episodio, di uno “stato” (e qui viene in evidenza la staticità del concetto: la storia tende a scomparire, per esempio, anche nella concezione del politico di Schmitt). L’obiezione è semplice: nella storia degli ultimi venti anni, caratterizzati da numerosi punti di svolta – ma quale periodo storico significativo, per quanto breve, non ha punti di svolta? – nulla assume l’importanza, la tragicità e la pervasività, fin nelle esistenze dei singoli individui, dell’epidemia. Non le Torri gemelle, non la Grande crisi finanziarie (e ancor meno la crisi fiscale di Eurolandia) e tantomeno la globalizzazione. Anzi proprio questo esempio solleva una domanda cruciale: può mai un fenomeno di lunga durata assumere la natura di uno stato di eccezione? Può la volontà politica, la decisione, renderlo tale?
Lo stato di eccezione di Cacciari pecca anche di un’altra caratteristica: il mondo politico, che dovrebbe dominarlo con le sue de-cisioni, non ne è consapevole: “Così non si fa che inseguire emergenza dopo emergenza, senza coscienza della crisi, senza la precisa volontà di uscirne politicamente e culturalmente”. E ancora: “Invece di un’informazione adeguata si procede ad allarmi e diktat, invece di chiedere consapevolezza e partecipazione si produce un’inflazione di norme confuse, contraddittorie e spesso del tutto impotenti”.
Aver fatto della pandemia una parte di un fenomeno più ampio fa sospettare che Cacciari abbia confuso piani diversi. Uno è una patologia della politica italiana, l’incapacità di guardare lontano, di avere una strategia di lungo periodo (tracciata a grandi linee, ma adattata poi alla situazione concreta). Questo problema, grave, non ha però alcun nesso con il green pass: la Francia, che ha una pubblica amministrazione (e una cultura politica) in grado di disegnare grandi strategie ha adottato il green pass prima dell’Italia. La confusione, la contraddittorietà, l’inefficacia degli interventi politici sono invece legati all’estrema novità dell’epidemia e al problema, non nuovo, che ha fatto emergere con grande chiarezza: il difficile rapporto tra il “sapere della scienza” (a volte si parla di tecnocrazia), in questo caso oltretutto molto incerto e in rapida evoluzione, e la decisione democratica. Tutta la discussione sul green pass parla di quel rapporto.
Il passo argomentativo successivo di Cacciari è più interessante. “In forme ovattate e indolori la deriva è quella di una società del ‘sorvegliare e punire’ (il titolo di un’importante lavoro di Foucault). “è la società in cui le forme di controllo e sorveglianza immanenti alle tecnologie che tutti usiamo si stanno sempre più accordando ai regimi politici”. Evocare Michel Foucault significa evocare un potere che è dappertutto, non si lascia ridurre alla metafora spaziale alto-basso, ma può essere descritto soltanto attraverso una microfisica. Il riferimento alle tecnologia fa invece accenno implicitamente a un’altra delle grandi autori di riferimento di Cacciari: Martin Heidegger, che nel suo saggio inconclusivo – nel senso di “aperto” – La questione della tecnica, parla dell’essenza della tecnologia come in un Gestell, di un’intelaiatura, un supporto, un telaio (ma Gianni Vattimo traduce come im-posizione) – che però apre spazi impensati: “Se ci apriamo autenticamente all’essenza della tecnica, scrive Heidegger, ci troviamo insperatamente richiamati da un appello liberatore”. Nel saggio l’uomo appare come l’ente che “cammina sull’orlo estremo del precipizio”. L’abisso, quindi; e abissale è la filosofia di Heidegger, come quella di Cacciari (per il quale Gestell, la gabbia d’acciaio di Max Weber, è però il capitalismo) e dei suoi autori.
Cacciari ha ragione a evocare Foucault, ma ha torto a evocare la tecnologia. Il green pass è uno strumento a bassa tecnologia. Non è il panopticon dei tempi moderni, non è la rete neurale, il software che permette – in Cina – il riconoscimento facciale degli individui e, insieme alla raccolta dati, rende possibile non solo la sorveglianza costante dei loro comportamenti, fisici e sociali, ma anche l’imposizione di un punteggio sociale che, se basso, può essere molto invalidante. (Un regime che non fa parte certo della “microfisica” del potere)
Il vero aspetto nuovo del green pass – ma Cacciari curiosamente nonne parla – sta nel fatto che il controllo del possesso del green pass non è svolto dalle forze “di polizia”, ma dal gestore del bar, del ristorante, della sala di concerto. Tecnicamente non c’è nulla di diverso dal controllo dello scontrino al bancone del bar o del biglietto all’ingresso della mostra, che però sono titoli di credito privati. Il green pass introduce davvero il controllo di (alcuni) cittadini su (alcuni) cittadini, e l’obbligo sui primi di comminare una conseguenza penalizzante, quasi una sanzione. È un aspetto che va sicuramente esaminato, da un punto di vista politico e giuridico, ma non dice nulla sul vero tema sollevato da Cacciari. Un “semplice” obbligo di vaccinazione, sanzionato dallo Stato, eviterebbe queste conseguenze (e sarebbe probabilmente meno efficace), ma non scioglierebbe le perplessità di Cacciari.
Il filosofo veneziano, in realtà, guarda altrove, lamenta il fatto che “il green pass diventerebbe, allora, null’altro che un mezzo surrettizio per prolungare – malgrado con vaccinazioni ripetute – una sorta di micro-lockdown”. È un tema anche questo: se le prescrizioni del green pass dovessero risultare permanenti – ma esistono epidemie permanenti? – potrebbe effettivamente cambiare la funzione e il significato del provvedimento, anche dal punto di vista fondamentale: quello della discriminazione.
Cacciari lo affronta: “Ogni provvedimento che discrimina tra cittadini[…] lede i principi [della democrazia]”, scrive giustamente il filosofo, che però, curiosamente, asserisce ma non giustifica questa disciminazione. Oggi c’è la tendenza a considerare discriminante qualunque norma che introduca diritti e obblighi diversi ai cittadini. Giuridicamente (o anche socialmente, ma in questo caso la questione è giuridica) discriminare è in realtà trattare in modo diverso situazioni uguali, ed è il problema posto da ogni legge (così come è un problema, da risolvere e rivalutare nel tempo, quello dell’eguaglianza giuridica). La Corte costituzionale ha proprio lo scopo di vegliare che non si creino situazioni di questo tipo, e sicuramente verrà chiamata a esprimersi. Una cosa si può però notare subito: il green pass è ottenibile anche dai non vaccinati, sia pure in via provvisoria, attraverso un tampone negativo. La distinzione che crea – a rigore – non è tra vaccinati e non vaccinati.
Cacciari non si sofferma però sul tema della discriminazione, che pure è delicatissimo. Preferisce dedicare lo spazio comunque limitato a sua disposizione per esaminare l’aspetto che, chiaramente, gli sta più a cuore: l’incertezza dei vaccini. Non ha molto interesse – contrariamente a quanto si potrebbe pensare – esaminare gli argomenti di Cacciari su questo tema. Si può tranquillamente assumere – per amore della discussione – che siano tutti veri, verissimi.
Le cose che contano sono due. La prima è che il filosofo non tiene conto dei rischi – la probabilità di contagiarsi, di essere ricoverati, di finire in rianimazione, di curare male o per nulla altre malattie, di bloccare l’attività economica – poste dal covid. Questo sono temi che, nelle argomentazioni di Cacciari (e di Agamben), non appaiono. Il virus, la malattia, non c’è. Chi è chiamato a decidere, però, deve tener conto anche di tutti questi aspetti.
Sembra quasi, inoltre, che l’incertezza riguardi solo i vaccini; e Cacciari non sembra a suo agio con l’incertezza, per esempio quando rimprovera alla scienza – anzi alla Scienza, con la maiuscola, ipostatizzata – di non essere stata unanime (e quando, si può aggiungere, parla di società della crisi). La scienza non è né unanime, perché le sue procedure non glielo permettono, e non è univoca perché la realtà non lo consente. L’unanimità riguarda, al limite, il metodo, non il risultato.
La conseguenza dell’incertezza, secondo Cacciari, è che deve essere consentita la libera scelta. L’incertezza, scrive, “significa che deve essere una scelta libera, e una scelta è libera solo quando è consapevole. Siamo liberi solo quando decidiamo in base a dati precisi e calcolando razionalmente costi e benefici per noi e per gli altri”. Questo è ovviamente il passaggio chiave del discorso del filosofo veneziano. Può portare, in un mondo che è ontologicamente o almeno epistemologicamente probabilistico, a conseguenze abissali, radicali – come l’anarchismo filosofico (che non so fino a che punto sia la posizione di Cacciari).
Restando su un piano più concreto – anche se forse meno filosofico – il problema è che le epidemie sono il classico caso in cui la somma delle razionalità individuali – perché la razionalità è situata, nel tempo e nello spazio – non porta a una soluzione ottimale in termini di bene comune: in questo caso almeno la salute pubblica (ma anche il benessere economico). C’è un fenomeno di free rider (il singolo può pensare: si vaccinino gli altri, sarò protetto anche io); e c’è un fenomeno di esternalità: il costo individuale di non vaccinarsi potrebbe essere (anzi è) valutato dal singolo come superiore al vantaggio personale, ma il vantaggio collettivo è molto più elevato. Se i filosofi studiassero la scienza economica – che in Italia è considerata ideologica, mentre non lo è, se vissuta come scienza – non cadrebbero nelle fallacie tipiche dell’aggregazione delle scelte individuali.
Non c’è insomma – almeno in questo caso: l’economia insegna quando e a quali condizioni può esistere qualcosa di simile – una “mano invisibile”, ed è curioso farlo notare al filosofo veneziano. Alcuni liberisti lo hanno notato e hanno festeggiato il nuovo adepto. Sbagliando: Cacciari, in realtà, non si pone neanche il tema del bene pubblico.
A questo punto il tema della discriminazione, evocato ma non dimostrato, è completamente dimenticato. Anche nel momento in cui Cacciari si appella al diritto – anzi al Diritto o addirittura alla Scienza del Diritto – per risolvere però un problema diverso. “È legittima l’imposizione, perché di imposizione si tratta senza dubbio, di un trattamento sanitario che presenta le zone d’ombra, i dubbi, i problemi che ho succintamente ricordato?”, scrive.
È una frase che si presta a due obiezioni. La prima. Il green pass non è l’imposizione di un trattamento sanitario, e si è spiegato perché: lo incentiva, è probabilmente un caso di nudging giuridico (senza contare – dettaglio non irrilevante in altri contesti – che le leggi possono imporre una sanzione e nulla più). La seconda: è una domanda che si può capovolgere: “È giusto non sottoporre a vaccinazione obbligatoria tutti i cittadini, come avviene per tante altre malattie, quando la probabilità di mettere in pericolo la salute pubblica e il benessere complessivp è così elevata”. Perché, da qualunque parte si guardino le cose i rischi e le incertezze (anche sugli effetti di lungo periodo) del Covid sono di gran lunga superiori di quelli dei vaccini.
Cacciari pecca di riduzionismo. Riduce la complessità della pandemia, e delle scelte a essa legate, a un solo aspetto. Non si spiegherebbe altrimenti la fuga in avanti delle frasi successive, in cui il solo aspetto della volontà del potere viene in evidenza, e non la situazione concreta in cui essa agisce. “Esistono molte malattie infettive – si prevede il green pass per morbillo, scarlattina, tosse cattiva?”, scrive. No, perché non sono epidemiche. “E, conseguentemente, la norma che impedisce di salire su un treno con la febbre varrà da qui all’eternità? Dichiareremo fuori legge l’aver febbre, non importa se per aver contratto una febbre o per l’indigestione? Metteremo nella carta d’identità la nostra situazione di salute?”. Cacciari corre verso l’abisso, ma nulla in realtà ci invitaa a pensare che si stia percorrendo questa strada.
È un abisso sul quale sembra camminare anche l’assetto democratico delle nostre società: “Quando subiremo qualsiasi provvedimento o norma senza chiederne la ragione e senza considerarne le possibili conseguenze, la democrazia si ridurrà alla più vuota delle forme a un fantasma ideale”, conclude il filosofoo. È vero. Cacciari non si è accorto forse che, del green pass, si discute – animatamente, e giustamente – a tutti i livelli e in diversi paesi del mondo: tra i medici, tra i giuristi, tra i cittadini comuni, sui giornali, nelle piazze…