[ aggiornamento del 28 luglio: è doveroso ricordare che Massimo Cacciari ha pubblicato oggi sulla Stampa, sempre sul tema del green pass, un articolo decisamente più argomentato rispetto al breve post qui citato. Qui qualche riflessione sulle sue argomentazioni ]
Il green pass dà fastidio. È molto evidente e, a dire il vero, è anche comprensibile. Rende “costose” una serie di attività, che ora richiedono quantomeno un tampone – una possibilità che non va dimenticata, nella discussione sulle nuove norme – oppure che si rompano gli indugi e che finalmente ci si vaccini.
Nel 1973 a Napoli i cittadini in piazza chiedevano a gran voci di essere vaccinati, e il primo centro di somministrazione fu organizzato da una sezione del Partito comunista italiano. (Poi, in supplenza di uno stato incapace, che aveva tentato di nascondere l’epidemia, giunsero le forze armate americane). Oggi il vaccino fa paura, anche più del Covid, e si rivendica non solo la libertà di arrendersi alla paura, ma anche quella di contagiare altri e di intasare nuovamente gli ospedali riducendo fortemente l’offerta di servizi sanitari. A tutti.
Le argomentazioni contro il green pass sono numerose. Molte sono esagerate: si evocano parallelismi con gli ebrei vittime dei nazisti: quegli ebrei che non potevano uscire dai lager, erano costretti a vivere con nulla, denutriti a lavorare come schiavi per niente, a vivere in cameroni puzzolenti, alla mercé dei capricci di una soldataglia scatenata che poteva umiliarli e anche ucciderli per divertimenti. Ad Auschwitz il trattamento sanitario e gli esperimenti medici non erano obbligatori – pena una sanzione (e il green pass non è neanche questo) – erano forzati. Non a caso i testimoni di quel mondo tragicoa hanno reagito, per ripristinare la verità delle cose e la distinzione tra i due fenomeni.
Sorprende un po’, allora, trovare due importanti filosofi italiani a sostegno di queste tesi. Non perché esprimano una critica contro il green pass che – nei modi e con gli argomenti giusti – è ovviamente legittima, ma perché si avvicinano molto a una reductio ad hitlerum, una classica fallacia: un argomento ad hominem – come segnalava Leo Strauss, che ha coniato il termine – o una ignoratio elenchi, una conclusione irrilevante. I due filosofi, Giorgio Agamben e Massimo Cacciari meritano però un esame attento e rispettoso delle loro posizioni.
Agamben 1
Giorgio Agamben è innanzitutto intervenuto sul sito della casa editrice, quodlibet, fondata da alcuni suoi allievi, che pubblica testi di altissimo valore culturale (oltre all’opera omnia del filosofo di Homo sacer). In un testo del 16 luglio 2021, Cittadini di seconda classe, Agamben parla di “regime dispotico di emergenza”, e di “garanzie costituzionali” che sarebbero state “sospese”. Le vaccinazioni obbligatorie – che è un istituto ben più “pesante” del green pass – sono in realtà costituzionalmente legittime: l’articolo 32 della Costituzione prevede una riserva di legge per i trattamenti sanitari obbligatori ma impone anche che ci sia un “interesse della collettività”. Inoltre, dispone la Costituzione, “la Legge non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Non si può prendere un cittadino e forzarlo a vaccinarsi (e nessuno ha mai voluto fare niente nel genere). Il green pass, evidentemente, fa molto meno.
La reductio ad hitlerum è immediata: “Il risultato è , come è avvenuto nel fascismo, la discriminazione di una categoria di uomini[1], che diventano automaticamente cittadini di seconda classe”. Importante è anche il passaggio immediatamente successivo: “A questo mira la creazione del cosiddetto green pass”. Affermazione importante che richiede un’argomentazione forte: la “volontà del legislatore” – termine tecnico-giuridico – è davvero questa? È questa la funzione della legge? Per Agamben sì, si tratta dell’imposizione di una decisione arbitraria – quindi odiosa – perché è “una discriminazione secondo le convinzioni personali”. Un capriccio, quindi.
Perché? Perché “in ambito scientifico il dibattito è tuttora in corso sulla sicurezza e sull’efficacia dei vaccini che, secondo il parere di medici e scienziati che non c’è ragione di ignorare , sono stati prodotti in fretta e senza un’adeguata sperimentazione”. Dal momento che si leggono numerosi studi che dicono l’opposto, ci si aspetterebbe come minimo – dal momento che è un post su un sito internet – una lunga serie di citazioni, almeno in nota. Agamben sa come si lavora, quando si argomenta. Soprattutto quando la tesi è controversa. Non c’è nulla, però.
Coloro che si rifiutano di vaccinarsi, allora, “saranno esclusi dalla vita sociale”. Non è vero. Alcune manifestazioni non virtuali della vita sociale diventano più costose, in termini non semplicemente economici, vanno programmate. Improvvisare, fino a quando non finirà la pandemia, non si può; programmare sì.
Da questa esclusione totale deriverebbe, secondo Agamben, la trasformazione del vaccino in “una sorta di simbolo politico.-religioso”: un’altra immagine molto potente, evocativa, per la quale sarebbe interessante un’argomentazione ampia: l’idea, controversa, che il discorso politico non sia altro che un discorso religioso secolarizzato è propria di Carl Schmitt, il giurista reazionario e antisemita (e per qualche tempo filonazista) che ha molto influenzato (con “cautela”, ha detto) Agamben e Cacciari. Non c’è nulla, però. Peccato.
Segue invece una curiosa notazione: la discriminazione sarebbe provata dalla frase di un politico – non citato[2] – per cui è impossibile ricostruire circostanze e contesto, e quindi criticarlo – che avrebbe detto: “Li purgheremo con il green pass”. Una frase disgustosa, sotto tutti i punti di vista, che non può essere considerata come emblematica della decisione – non solo italiana – di istituire il green pass. A meno che non ci sia, di nuovo, un’ampia argomentazione a sostegno di questa tesi. Non c’è.
La conclusione è anche più interessante: ci troveremmo di fronte a una discriminazione sanzionata dalla legge e quindi “una barbarie che non possiamo accettare”. Questo è un tema molto delicato, perché richiama l’applicazione del principio di eguaglianza (giuridica e materiale), che nella Costituzione italiana è stato recepito all’articolo 3, uno dei più citati – giustamente – dalla giurisprudenza costituzionale.
Perché delicato? Perché come è evidente che non si possono trattare in modo diverso situazioni eguali è altrettanto evidente che non si possono trattare in modo eguale situazioni diverse. Di ogni norma ‘speciale’, proprio perché si rischia una discriminazione a ogni passo, a ogni provvedimento legislativo, occorre una giustificazione forte. Il principio di eguaglianza comporta discussioni a volte infinite, defatiganti, come richiede la delicatezza della materia; ma nel discorso di Agamben, gli argomenti, mancano.
Agamben 2
Agamben è poi tornato, di nuovo, a parlare del green pass nel post Tessera verde, del 19 luglio. Ci si aspetta un completamento delle argomentazioni: su temi così delicati, la discussione è un lento work in progress, non si può pretendere che venga detto tutto e subito.
Bene. Agamben, a questo punto diventa più raffinato: la discriminazione “conseguenza necessaria e calcolata” non è “lo scopo principale” della tessera verde che – attenzione – “ha di mira non i cittadini esclusi, ma l’insieme della popolazione che ne è munita”.
Il discorso si inverte: queste persone saranno soggette a “un controllo minuzioso e incondizionato su qualunque movimento”, “del tutto analogo al passaporto interno che nel regime sovietico (anche in quello zarista, ndr) ognuno doveva avere per potersi spostare da una città all’altra”. Il cittadino “dovrà esibire il green pass a ogni suo movimento, anche per andare al cinema, assistere a un concerto o sedersi a un ristorante”. Ora la vittima non è più il cittadino discriminato perché non vuole vaccinarsi che “sarà, paradossalmente, più libero”.
È curioso che Agamben faccia riferimento, per parlare di un controllo minuzioso dei cittadini, a un mondo tecnologicamente molto indietro: l’Urss (e la Russia zarista). Le tecnologie oggi permettono un tracciamento costante, indipendentemente dal green pass. Le grandi aziende digitali hanno traccia di tutti i nostri movimenti, dei nostri pagamenti, delle nostre telefonate, e le forze dell’ordine possono recuperarle. In Cina le persone ricevono un punteggio in base a ogni aspetto comportamento sociale, e le persone sono tracciate con tecnologie di riconoscimento facciale – oggi vietate in Europa – onnipresenti. Il problema esiste ed è grave, ma non è un green pass, facilmente falsificabile, facilmente scambiabile, controllato da gestori di cinema e bar che non sono neanche autorizzati a chiedere un documento di riconoscimento, a essere “il” problema.
( Agamben, in realtà, cita la Cina. Per dire che “manterrà i suoi sistemi di tracciamento e di controllo anche dopo la fine della pandemia”. Certo, ma molti di essi li aveva già prima ).
Soprattutto non si capisce più chi è discriminato. Sembra di capire che, per Agamben, siamo tutti vittima di un Gestell, una struttura, una gabbia d’acciaio, che ci domina tutti. In questo caso, però, la discriminazione: siamo tutti vittime di un potere demoniaco. Un altra immagine evocativa che richiede (anche) un grande rigore nell’analisi.
Agamben e Cacciari
È del 26 luglio, invece, un lungo articolo che Giorgio Agamben ha scritto con Massimo Cacciari: A proposito del decreto sul “green pass”, pubblicato sul sito dell’Istituto Italiano degli studi filosofici di Napoli. Sito prestigioso.
Le tesi sono analoghe, si ripete l’esempio della Cina, l’analogia con il passaporto interno sovietico, e la dichiarazione del politico che vuole purgare i non vaccinati. Si torna dunque all’argomento: no-pass = discriminazione, ma al termine torna anche il tema del controllo sui vaccinati, così come quello della discriminazione come minaccia costante.
È vero che la discriminazione è una minaccia. Per questo c’è una Corte costituzionale – i due autori citano un regolamento dell’Unione europea, dimenticando la Costituzione – che, molte molte volte, valuta se una norma è compatibile con il principio di eguaglianza: che una discriminazione diventi legge è, davvero e purtroppo, un fenomeno costante, ma l’invenzione di Hans Kelsen (che Cacciari per esempio sembra disprezzare) è lì a evitare ogni patologia. La Corte ha già dichiarato validi gli obblighi di vaccinazione obbligatoria: si preferisce questo sistema (meno efficace, peraltro) a uno che comunque permette di fare tamponi per ottenere un pass provvisorio? Davvero?
Si riprende anche l’idea del vaccino come “simbolo politico-religioso”. “Guai se il vaccino si trasforma in una sorta di simbolo-politico religioso”, scrivono i due filosofi. Questo “rappresenterebbe una deriva anti-democratica intollerabile”, tesi interessante, però non elaborata. Non solo: “contrasterebbe con la stessa evidenza scientifica”. Non è chiaro perché un “simbolo politico-religioso” dovrebbe andare d’accordo con l’evidenza scientifica: si potrebbe persino argomentare il contrario (ma dipende dall’idea che si ha della politica, della scienza, della religione…).
Qui i due filosofi esprimono un’idea peculiare: una cosa è sostenere l’utilità dei vaccini (e “nessuno invita a non vaccinarsi!”, scrivono), una cosa è tacere che “ci troviamo tuttora in una fase di ‘sperimentazione di massa’. Questa è una frase molto delicata: significa che i vaccinati sono tutti cavie. Per giustificarlo, di una vasta discussione scientifica Agamben e Cacciaro colgono, con un classico cherry-picking, le argomentazioni a favore della loro tesi.
Ammettiamo pure che siano tutte vere, e che non ci siano argomentazioni in senso contrario. Bene. Dall’altra parte c’è il Covid. C’è nella realtà, ma non c’è negli articoli di Agamben e di Cacciari, che non ne parlano. Non una parola della tragedia che ha colpito il mondo, delle difficoltà e delle sfide che ha posto a tutti. Strano.
Così come non è vero – come dicono i due filosofi – che si tacciano i problemi posti dai vaccini – tutti i vaccini e, ancor di più, tutti i medicinali, hanno controindicazioni, effetti collaterali, pongono rischi – così è vero che l’utilità dei vaccini, rispetto al problema che devono risolvere, è totalmente soverchiante. (E non è detto che il concetto di utilità sia il più adatto, in una discussione che ha anche risvolti etici… ma per ora si parla di diritto e politica).
Non si può non ricordare, in un’argomentazione di alto livello, cosa sia stato il Covid. Non si può sul piano scientifico: i rischi – non esiste un mondo senza rischi – vanno confrontati. Non si può sul piano filosofico: la pandemia, non il vaccino o il green pass, ha cambiato radicalmente il mondo, anche “spirituale” come si diceva un tempo, in cui viviano. Non si può non parlarne.
[1] Non sarebbe stato male citare anche le donne, non per una passiva e irriflessa adesione ai dettami del politically correct, ma proprio per rendere il discorso concreto: si parla di individui, non di concetti.
[2] Non mi è stato possibile risalire alla fonte [ Un lettore ha poi correttamente suggerito che si tratta di un post cancellato di Emanuele Maria Lanfranchi, giornalista, capo ufficio stampa della presidenza della Regione Lazio, portavoce di Nicola Zingaretti ]