Molti non osano neanche sognarlo: una banca centrale che non solo finanzia il deficit di bilancio del governo, ma aiuta anche ad abbassare il debito pubblico accumulato, acquistandolo. Sarebbe bello, vero? Ma la scienza economica insegna che in questi casi tre almeno sono i problemi: si crea inflazione, si spiazzano gli investimenti privati (il crowding out), e diventa difficile tornare indietro, alla normalità.
È mai successa una cosa del genere? Sì, negli Stati Uniti, tra il 1964 e il 1969: lo ha ricordato Benjamin Cole nel blog di Joao Marcus Marinho Nunes, Historinhas: due economisti “monetaristi di mercato”, seguaci di Milton Friedman ma al tempo stesso sostenitori, durante tutta la recente Grande recessione, di una politica monetaria molto espansiva – sicuramente più espansiva di quella effettivamente realizzata – per Stati Uniti, Europa e Giappone.
Il dato emerge da uno studio del 1981 di V.Vance Roley pubblicato sulla rivista della Federal Reserve Bank of Kansas City: The Financing of Federal Deficits: An Analysis of Crowding Out. “Durante quel periodo di cinque anni – scrive Roley – non solo il nuovo debito accumulato fu totalmente finanziato con moneta, ma il debito netto complessivo calò di 1,1 miliardi di dollari”. Detto più semplicemente, “gli acquisti della Federal Reserve di titoli di Stato furono più ampi del debito accumulato dal governo”. La base monetaria aumentò a un ritmo rapido, il 6%, ma inferiore a quello dei dieci anni successivi, quando il deficit pubblico, nelle mani di Richard Nixon esplose: dai 12,1 miliardi di nuovo debito tra ’64 e ’69, si passò ai 68,4 miliardi del ’69-74, i 212,8 del ’74-79 e i 61,3 del solo 1980 (dati nominali).
Quello degli ultimi anni 60 fu un massiccio quantitative easing mascherato. Come andò l’economia americana in quel periodo? La banca dati Fred della Fed di St. Louis ci aiuta a capirlo. La crescita fu robusta: 5,8% nel 64, 6,5% nel 65, 6,6% nel 66. Poi dopo la frenata del 67 (+2,7%) si passò al 4,9% del 68. Nel ’70 l’America cadde in una breve recessione (+0,2% la crescita annua), prima di riprendersi rapidamente. Nel ’73 arrivò la crisi dell’Opec, ma questa è un’altra storia. Nel quinquennio la disoccupazione scese passando dal 5,1% fino al 3,4%. Cole ricorda che comprendendo tutto il ’69, in sei anni il pil Usa salì del 32,8% e gli occupati aumentarono del 14%. L’inflazione? Salì e come: dallo 0,3% del gennaio 1965, si impennò rapidamente e raggiunse a dicembre del 1969 il 2,1%. L’offerta di moneta M2, crebbe a un ritmo rapido ma non eccessivo: il 7,5% medio annuo. In quel quinquennio d’oro, infatti, il deficit non superò mai il 3% e, sorpresa!, il bilancio tornò in surplus nel 1969, l’anno prima di una breve recessione.
Non bastano pochi dati a definire una buona politica economica. La guerra in Vietnam, la crisi dell’Opec, l’esplosione dei deficit pubblici non permettono di valutare attentamente quanto questo quantitative easing “nascosto” abbia inciso sull’andamento degli anni successivi: la politica monetaria può avere effetti molto ritardati. Erano anche altri tempi, nei quali la struttura dell’economia americana – fattore fondamentale – era profondamente diversa da quella odierna, sia americana che europea. Non c’è dubbio inoltre che l’intervento pubblico Usa – gli investimenti, soprattutto – siano stati e siano tuttora comunque più efficienti di quelli di molti governi europei.
Nessun risultato scientifico in ogni caso può essere tratto da questo singolo episodio, e nessuna regola generale. Il gioco tra la politica monetaria e quella fiscale in troppi casi si è rivelato molto pericoloso. L’esempio ricorda però come siano complesse le situazioni economiche e come sia importante essere pragmatici e valutare sempre in concreto, mai in astratto, costi e benefici di ogni intervento.