L’austerità fiscale comincia lentamente a mordere. In quasi tutti i paesi sviluppati, gli ultimi dati sull’andamento del pil mostrano che il contributo alla crescita dei consumi dei governi (allargati) – si tratta dei final consumption expenditure of general government, secondo la definizione di Eurostat, l’aggregato usato dalla Fed di St. Louis per seguire in campo internazionale le spese e gli investimenti lordi pubblici – ha rallentato, si è azzerato o è addirittura diventato negativo. Le spese pubbliche sono piuttosto volatili, su base trimestrale, ma una tendenza più chiara emerge dalle cifre annuali.
I numeri mostrano che la quota dei consumi pubblici, rispetto al pil totale, può non essere piccola in termini assoluti (16% negli Stati Uniti, 24.6% in Francia) ma che i loro effetti anticiclici (ma anche quelli recessivi) diretti possono essere insufficienti (o piccoli). In un certo senso, è quindi fuorviante parlare di “politiche keynesiane”: John Maynard Keynes immaginava un forte shock sugli investimenti pubblici durante una crisi, per controbilanciare il crollo degli investimenti privati, i veri motori (ma non necessariamente le cause) dei cicli economici.
Il morso dell’austerità è già evidente nei paesi di Eurolandia in difficoltà. In Spagna, per esempio, i consumi pubblici hanno sottratto 0.5 punti percentuali (p.p.) dalla crescita del 2011 (quando il pil è aumentato dello 0.7%), sono stati irrilevanti nel 2010 (-0.1% il pil), e hanno aggiunto 0.5 p.p. nel 2009 (-3.7%). Allo stesso modo, in Portogallo i consumi pubblici hanno sottratto 0.3 p.p. tra ottobre 2010 e settembre 2011 (-0.6% il pil annuo), hanno aggiunto 0.2 p.p. in tutto il 2010 (+1,4%) e 1.0 p.p. nel 2009 (-2.9%). I dati Eurostat per la Grecia sono disponibili fino a marzo 2011 e mostrano che i consumi statali hanno sottratto 1.7 punti percentuali dal tasso di crescita annuale (-5%), mentre hanno aggiunto 1.9 p.p. nel 2009 (-2.3%) e 0.3 p.p. in 2008 (+1%). È interessante notare che le spese pubbliche della Grecia sono aumentate molto rapidamente durante la recessione del 2009, ma i risultati sono stati deludenti (forse a causa dello stato delle finanze pubbliche, già molto deteriorato).
L’austerità è meno evidente in altri paesi. Anche nella problematica Italia, i consumi pubblici hanno sottratto solo 0.1 p.p. nel 2011 e nel 2010 (+0.4% and +1.4%, rispettivamente la crescita del pil), mentre hanno aggiunto 0.2 p.p. nel 2009, quando l’economia crollò del 5.1 per cento. Non è la prima volta, per il nostro paese: tra il ’93 e il ’96, i consumi pubblici sottrassero fino a 0.7 p.p., mentre il pil cresceva a ritmi del tre per cento!
Le spese pubbliche hanno rallentato in Francia (0.2 p.p. in 2011 da 0.6 in 2009) e in Germania (0.3 nel 2011 da 0.6 in 2009), ma il loro contributo è ancora positivo. Al di fuori di Eurolandia, nella Gran Bretagna – dove l’austerità è tema centrale nei dibattiti politici – il contributo dei consumi pubblici si è azzerato nel 2011 (+0.8% il pil complessivo), da 0.3 p.p. nel 2010 (+2.1%) e zero, ancora, nel 2009 (-4.4); mentre negli Usa le spese del governo allargato hanno tolto 0.2 p.p. nel 2011 (+1.7%), e aggiunto 0.1 p.p. nel 2010 (+3.0%), e 0.3 p.p. in 2009 (-3.5%). In Giappone, infine, il contributo delle spese pubbliche alla crescita è sempre stato piuttosto piccolo (0.1 p.p. nel 2011 e nel 2010, 0.2 nel 2009, 0.0 nel 2008).
I consumi del governo, un aggregato che esclude trasferimenti unilaterali come spese previdenziali o sussidi di disoccupazione, generano il solo evidente e diretto contributo alla crescita derivante dalle spese pubbliche. Quando gli economisti tentano di calcolare effetti più duraturi, i risultati sono molto controversi. Diversi studiosi credono che il moltiplicatore – il rapporto tra la variazione del reddito totale, il pil, e la variazione delle spese pubbliche che la hanno causata – è uno o meno di uno: per ogni euro speso dal governo, l’effetto duraturo sul reddito sarebbe, nel migliore dei casi, di un euro. La ragione principale è forse nel fatto che la politica monetaria controbilancia quella fiscale, per evitare l’inflazione (e questo suggerisce che, durante una recessione, il moltiplicatore possa essere più alto che in tempi normali: recenti stime sembrano portare verso questa conclusione). È anche possibile che gli stessi cittadini annullino gli effetti della politica fiscale: per esempio, possono aspettarsi più tasse in futuro e subito ridurre di conseguenza i consumi. In ogni caso non è impossibile – l’evidenza empirica è molto chiara – superare l’effetto dell’austerità. Bisogna però fare qualcosa d’altro: adottare una politica monetaria davvero espansiva, per esempio – tassi molto bassi potrebbero non essere sufficienti – oppure svalutare il cambio, o tagliare in modo mirato alcune tasse. Riforme strutturali, se ben disegnate e bilanciate, possono essere importanti, ma agiscono con un certo ritardo.