L’Irlanda è in difficoltà. Dopo aver fatto bene i suoi compiti, aver applicato tutte le riforme che sembravano necessarie per costruire un’economia sana e in crescita, ora deve subire la sfiducia dei mercati e chiedere aiuti al Fondo monetario internazionale non per pagare anni di sprechi pubblici, ma per risanare il proprio settore bancario. Molte cose sono successe, a Dublino e a Bruxelles, e le cronache hanno raccontato come le responsabilità non siano solo irlandesi.
Detta in modo un po’ tranchant, Dublino – che dovrà davvero ricorrere ai mercati finanziari solo a metà 2011 – paga la paura dei politici europei di un effetto-contagio scatenato dagli investitori. Come se per rendere meno incerto il destino di Grecia, Portogallo e anche Spagna, con tutti i loro problemi, bastasse davvero mettere al riparo l’Irlanda.
Una sola cosa si può davvero imputare a Dublino. Anche questa non è una sua responsabilità esclusiva, perché il pensiero dominante andava in un’altra direzione, ma il conformismo non è mai una scusante. Il governo avrebbe dovuto far andare in default le sue banche (e non rischiare di mandarci il paese), con tutte le cautele del caso. “Ma come – si dirà – dopo la lezione della Lehman? Quelle banche erano troppo grandi”. È vero: il settore creditizio era dominato da sei banche, una delle quali era pubblica (e questo aveva anche abbassato il livello di concorrenza).
Se erano però troppo grandi per fallire Allora, come ha spiegato la rigorosa e ortodossa Banca dei regolamenti internazionali, quelle banche erano anche troppo grandi per esistere. E spesso, se non sempre, sono interventi pubblici distorsivi che incentivano la crescita delle dimensioni delle aziende di credito, come ha denunciato – per gli Usa – il presidente della Fed di Kansas City Thomas Hoenig.
Questa è però una lezione, c’è da scommetterci, che nessuno vorrà ascoltare.