Gli americani non hanno paura di innovare. Anche quando le loro iniziative potrebbero avere ricadute molto ampie. Non è da meno la Federal reserve, la banca centrale che deve assicurare soprattutto – oltre alla crescita – stabilità finanziaria e nell’andamento dei prezzi, non è da meno. Dopo aver lanciato aggressive misure “non convenzionali” sta preparando una vera svolta. I verbali della riunione del 21 settembre, che sono stati pubblicati il 12 ottobre, hanno confermato le voci dei giorni precedenti: una delle nuove strategie che sono state valutate, in quello che è apparso come un brainstorming, è quella di “inseguire come obiettivo un determinato livello dei prezzi e non il tasso di inflazione”. Lo scopo è di aumentare le aspettative di inflazione e avere quindi, oggi, tassi reali (pari ai tassi nominali, vicini allo zero, meno l’inflazione attesa) negativi, sostenendo gli investimenti.
È una questione un po’ tecnica, ma molto importante. Praticamente tutte le banche centrali oggi hanno un obiettivo di inflazione, più o meno esplicito, più o meno condizionato da altri fattori. La Bank of England, per esempio, è chiamata a giustificarsi ogni volta che la crescita dei prezzi si allontana dall’obiettivo del 2% di almeno un punto percentuale; la Banca centrale europea deve mantenere il rialzo del costo della vita al di sotto ma vicino il 2% nel medio periodo, tenendo però conto, in subordine, sia della crescita del Pil sia dell’aumento della massa di moneta in circolazione. La Fed ha invece un obiettivo informale, dichiarato in modo indiretto: deve mantenere la dinamica dei prezzi tra l’1,7 e il due per cento.
Quando i tassi sono vicino allo zero – come oggi negli Usa, in Giappone, in Gran Bretagna – occorre promettere un po’ di inflazione in più. Già nell’agosto del 2009 Carl Walsh dell’Università della California, al simposio di Jackson Hole, disse in buona sostanza ai banchieri centrali presenti – il padrone di casa Ben Bernanke, Jean Claude Trichet Masaaki Shirakawa, Stanley Fisher – che stavano sbagliando tutto: bisognava promettere molta inflazione per il futuro abbassando i tassi reali attuali. Con una sola avvertenza: il rialzo del costo del denaro, una volta avvicinati all’obiettivo, deve essere repentino. Il suo consiglio era però diverso da quello che avrebbe poi avanzato il capo economista del Fondo monetario internazionale Olivier Blanchard, che ha invitato le banche centrale di alzare il target di inflazione al 4% almeno. Walsh proponeva di “centrare” un determinato livello dei prezzi. Perché? «Più è severa la deflazione – spiegò – più ampia deve essere la successiva inflazione per far tornare i prezzi sul sentiero desiderato». Nello stesso tempo è più facile mantenere ancorate le aspettative.
La proposta di Walsh si rifaceva soprattutto agli studi di Lars E.O. Svensson dell’Università di Princeton, che è anche un vivace (e ultra-keynesiano) vicegovernatore della Riksbank, la banca centrale svedese. In un discorso del febbraio 2009 a Stoccolma, Svensson aveva già rispolverato la sua idea, ricordando anche – cosa molto rilevante oggi – che aspettative più elevate di inflazione avrebbero abbassato anche il cambio reale, determinando così un deprezzamento favorevole alle esportazioni. Nella successiva riunione della Riksbank del 25 febbraio propose ai colleghi banchieri centrali di fare, con molte cautele, qualche passo in quella direzione, ma la sua proposta fu respinta: troppo aggressiva.
I banchieri della Fed, evidentemente, l’hanno conservata per i momenti difficili e, ora, è riemersa nelle discussioni del Federal open market committee (Fomc), l’organismo che decide la politica monetaria. Non da sola, in realtà. Le ipotesi concorrenti sono quella di dichiarare più apertamente l’obiettivo di inflazione (o meglio: “il tasso di inflazione che il comitato considera coerente con il suo doppio mandato”, crescita e stabilità dei prezzi) e l’adozione di un obiettivo di crescita del Pil, ignorando la dinamica dei prezzi. È la proposta del price targeting a essere però maggiormente discussa tra i Fed Watcher, gli analisti che seguono la banca centrale di Washington. I suoi fautori nel Fomc dovranno però fare i conti con quei governatori che pensano – non senza ragioni – che stimoli più elevati creino poco benefici perché, argomentano, la disoccupazione Usa è ormai in gran parte strutturale. Non si cura così.