Guerra o non guerra (valutaria), i governi devono fare i conti con i mercati. Se sui cambi vengono scambiati 4mila miliardi di dollari al giorno, nessuna autorità pubblica può immaginare di essere nulla di più di un vincolo, uno tra i tanti.
I mercati, ora, sembrano volersi rivolgere altrove. Frenare le vendite di dollari e lasciar deprezzare un’altra moneta, la sterlina. Se così fosse il gran parlare di guerre valutarie, più o meno volute e guidate da Washington, potrebbe trovare di fronte a sé una realtà un po’ più complessa di quanto lo schema del "conflitto" lasci pensare: in economia la sovranità dei governi – è noto fin dal Settecento, quando si cercava di intervenire d’imperio sulle carestie e il prezzo del grano – è davvero limitata.
I mercati valutari, in realtà, stanno penalizzando da tempo la sterlina. È stata la grande retorica politica sul dollaro, lo yen e lo yuan a nascondere nell’ombra il fatto che la moneta britannica era la candidata ideale per un forte deprezzamento, anche nei confronti del dollaro. Si potrebbe dire – se l’immagine della guerra valutaria globale avesse davvero un senso – che potrebbe essere Londra a vincere il conflitto; peccato che una valuta molto debole è la conseguenza di un’economia in difficoltà e porta con sé anche tanta inflazione. «Il dollaro in calo sta nascondendo i problemi più gravi della sterlina», dice allora Stuart Green ella Hsbc, con un linguaggio che riporta la questione alle sue più giuste dimensioni.
La Gran Bretagna è infatti più "avanti" – o forse occorrebbe dire "più indietro" – degli Stati Uniti. Se alla Fed si discute ancora se sia il caso di ampliare il quantitative easing e iniettare più liquidità nell’economia o addirittura introdurre nuove strategie di politica monetaria, la Bank of England (BoE) è già pronta a nuovi passi. «È aumentata la probabilità che diventino necessari nuovi interventi per stimolare l’economia e mantenere l’inflazione sotto controllo», recitano i verbali dell’ultima riunione del Comitato di politica monetaria (Mpc), rivelando il doppio problema dell’economia britannica: l’attività che perde slancio e l’inflazione che resta oltre il tetto massimo. Alla prossima riunione – nota Green – non è impossibile che l’Mpc si ritrovi diviso in tre: le colombe favorevoli a nuovi stimoli, i falchi desiderosi di tener sotto scacco i prezzi, e coloro che preferirebbero non cambiare alcunché. Il risultato potrebbe essere uno stallo, che si scioglierebbe solo dopo un’eventuale, aggressiva, mossa della Fed.
Non va dimenticato poi il tema della politica fiscale. Nella settimana del 20 settembre, quando sono stati pubblicati i verbali dell’Mpc, il governo ha anche rivelato il fabbisogno pubblico di agosto, molto brutto. I due eventi sono stati accompagnati da una forte flessione del cambio effettivo, calcolato verso le maggiori valute.
La miscela tra le difficoltà della politica monetaria e di quella fiscale è quindi esplosiva. Cade poi su un terreno scivoloso: negli ultimi trent’anni – nota Simon Derrick di Bank of New York Mellon – «il solo rally sostenuto della sterlina è stato tra agosto ’96 e marzo ’98, prima e dopo le elezioni del ’97». Per questo motivo, aggiunge, «dobbiamo ammettere almeno la possibilità che l’attuale, piccola, debolezza del cambio possa trasformarsi in qualcosa di molto più significativo».
È un’idea condivisa in buona sostanza anche da Green. «Se la Fed dovesse lanciare una nuova fase di quantitative easing la BoE potrebbe fare lo stesso, dopo un po’ e il mercato allora vedrà la sterlina, e non più il dollaro, come il "cattivo" della storia».