Eurolandia guarda avanti. L'Unione non vuole fermarsi ed è pronta a far entrare tra le sue fila, nel 2011, l'Estonia. È un'economia non brillantissima, forse, nota per la durezza della crisi che l'ha colpita. Ha però un insospettabile punto di forza: un debito pubblico pari al 7,2% del pil che pure non le ha permesso di essere risparmiata dalle critiche della Bce.
Il livello del debito è bassissimo: anche se potrà salire al 9,6% a fine anno, resterà comunque molto più basso dell'80% medio di Eurolandia e del 60% previsto dal Trattato di Maastricht. L'Estonia, per la sua politica fiscale, per quanto molto dolorosa, e per i risultati ottenuti emerge quindi «come un modello di disciplina fiscale, che l'Unione monetaria potrebbe voler applicare all'intera Eurolandia», spiega in una ricerca Ian Marsberg della Absa Capital, un'affiliata della Barclays.
È facile capire perché. L'Estonia ha visto l'attività economica contrarsi del 14,1% nel 2009, dopo il -3,6% del 2008. È stata una brusca caduta, dopo otto anni di crescita (2000-2007) a un ritmo medio dell'8,3%. I conti pubblici di Tallinn hanno però mantenuto la rotta: dopo anni di surplus, il deficit del 2,7% del 2008 si è ridotto l'anno scorso all'1,7% e potrebbe tornare al 2,5% nel 2011. Non è molto: il livello è in ogni caso costantemente al di sotto del tetto del 3% che in Eurolandia nessuno, tranne il Lussemburgo e la tribolata Finlandia, è riuscito a rispettare nel 2009. Con la brusca recessione non può poi sorprendere che l'inflazione sia allo 0,7% annuo (anche se la dinamica dei prezzi aveva toccato il 10,6% nel 2008…).
È così un po' curioso leggere allora, nel Convergence report della Banca centrale europea – contraria all'adesione – consigli politici adeguati a paesi con politiche fiscali decisamente più squilibrate. La Bce consiglia di fare qualcosa che l'Estonia ha perseguito a lungo: «Raggiungere un surplus fiscale» ed «essere pronti a prendere provvedimenti anti-ciclici se necessario per contrastare il rischio di surriscaldamento»: dopo anni di avanzo, il governo ha varato negli anni scorsi diverse manovre fiscali – prevedendo anche tagli agli stipendi pubblici – per mantenere i conti in ordine.
Il nodo vero è l'inflazione, rimasta indubbiamente alta degli anni scorsi. Questo è però, innanzitutto il frutto del regime di cambio fisso adottato – forse con qualche eccesso di zelo – all'interno dell'Erm II, che è precondizione per l'obbligatoria adesione all'euro (se si esclude la Gran Bretagna, la Danimarca e, per un cavillo legale, la Svezia, l'adesione è imposta dai trattati). Il sistema valutario chiede alla politica monetaria di concentrarsi sul cambio e non sui prezzi o sul credito. Questo vincolo ha surriscaldato, classicamente, le quotazioni degli immobili. Sulla dinamica dei prezzi hanno poi giocato alcune caratteristiche – qualcuno le chiamerebbe imperfezioni – dei mercati. L'offerta, in un sistema del lavoro giudicato «relativamente flessibile», è stata limitata perché molti estoni hanno preferito espatriare (i salari erano più alti all'estero) e perché non erano sufficienti i lavoratori con competenze specifiche. Il risultato è stata una spinta verso l'alto dei salari. Come poi accade sempre, il costo del lavoro si è mosso in ritardo rispetto all'economia, durante la crisi, e ha continuato ad aumentare mentre la produttività calava. Così si spiega l'inflazione al 10,6% del 2008, alimentata anche dall'aumento delle materie prime.
L'impossibilità di far deprezzare la valuta ha tenuto inoltre elevate le importazioni e ha penalizzato le aziende aperte alla concorrenza, favorendo quelle protette e più inflazionistiche. Il deficit con l'estero (corrente e di capitale insieme) ha raggiunto una media del 10% del Pil, con una punta del 16,8% nel 2007, «sollevando preoccupazioni sulla sua sostenibilità»: il paese, fiscalmente solido, è stato così attaccato dagli investitori che hanno fatto leva sull'elevato indebitamento delle famiglie in valuta estera – un'altra conseguenza, in parte forse evitabile, della stabilità della moneta – e hanno scommesso sulla fine del cambio fisso. Il vero problema del paese è nell'esposizione dei privati, salita al 127% del Pil.
Gli appunti della Bce sembrano allora un po' troppo vicini, anche se non coincidenti, alle critiche degli euroscettici e di tutti coloro che pensano che Eurolandia sia un errore, perché istituisce cambi fissi tra economie diverse, o manchi di un pezzo, il coordinamento delle politiche di crescita. Il rapporto non può infatti che concludersi con un consiglio all'Estonia un po' sorprendente: aumentare la crescita potenziale che pure – aggiunge – è già «significativamente superiore a quella di Eurolandia».